IN NOME DELL’UMANITA’: PIERGIORGIO WELBY

24 settembre 2006 at 8:04 24 commenti

Piergiorgio Welby

Piergiorgio Welby (da “Corriere.it” del 22 settembre 2006)

Piergiorgio Welby, co-presidente dell’associazione “Luca Coscioni” http://www.lucacoscioni.it/ e malato di distrofia, ha scritto due giorni fa al presidente Napolitano una toccante lettera http://www.lucacoscioni.it/node/7131 in cui chiedeva, fra l’altro, il ricorso all’eutanasia, in Italia vietata per legge. Immediata la risposta del Presidente http://www.lucacoscioni.it/node/7136, che ha sollecitato un serio confronto sulla questione. Davanti a episodi come questi siamo combattuti da due opposti sentimenti. L’uno è il pudore. Sì, proprio quello. Quando ci ricordiamo della sacertà della vita, ci rendiamo conto che il silenzio (un silenzio che può essere anche preghiera) è l’unica, degna risposta. Il silenzio che non giudica, che ci mette di fronte all’impotenza della nostra razionalità. Ma, anche, il silenzio che comunica amore e com-passione.

Ricordo di aver letto tempo fa, su “Famiglia Cristiana”, una testimonianza sui lager dei nostri giorni. Sulla porta di uno di questi luoghi, inoltre, campeggiava una scritta dantesca, molto simile al celeberrimo “Lasciate ogni speranza voi (visitatori) che entrate”. Gli ospiti, lì dentro, si sarebbe faticato moltissimo a chiamarli uomini: gente dal corpo perfettamente simile a un palo e con un solo piede, bicefali, muniti di due fori al posto di naso e bocca… Unici assistenti, amorevoli, le suore e i religiosi. Gli unici a ravvisare in loro la più vera natura: quella UMANA. Vite abbandonate, vite da amare.

L’altro sentimento è opposto. Il bisogno, direi il dovere, di parlare. Non possiamo tirarci indietro, non possiamo eludere il “grido di dolore” di una umanità che appartiene a tutti. Ma questi due sentimenti opposti non si escludono a vicenda: si integrano in perfetta armonia. Sia il nostro parlare sobrio e misurato: o anche il più ricco periodare somiglia a un inintelligibile grugnito. Favorevoli o contrari all’eutanasia, ricordiamo sempre che, innanzi tutto, in quel letto c’è un UOMO e non un’IDEOLOGIA da difendere. E’ in nome di quell’UOMO, quindi di tutta l’umanità, che dobbiamo lottare.

Invito tutti a lasciare, sul sito di Luca Coscioni, un messaggio a Piergiorgio http://www.lucacoscioni.it/welby/form.php. Qui di seguito trascrivo il mio.

Carissimo Piergiorgio, ti ho visto ieri in televisione e mi sembra di conoscerti da sempre. Non potevi parlare né muoverti, ma quel tuo sguardo fisso, severo eppure dolcissimo, penetrante e sincero, immensamente amorevole nella sua disarmante nudità, pareva leggermi nell’anima. Ammonirmi. Mi metteva di fronte tutte le mie miserie, i miei piccoli, patetici “drammi” quotidiani. Ma mi faceva anche capire quale grande e irripetibile miracolo sia l’essere umano, quando non abdica alla propria umanità.

Non posso sapere cosa provi. Eppure ti sento così “vero” che quasi ne provo imbarazzo e turbamento. Tu soffri, Piergiorgio, in modo crudele e irripetibile; hai sempre sofferto, a quel che leggo. E la domanda vera, mi pare, è questa. Affermi che “morire ti fa orrore”, e ti credo, perché la tua lettera è un autentico, realissimo, inno alla vita. Quella vera, non l’astratto concetto evocato, magari con tanto di maiuscola, dai sedicente paladini della stessa. Ma la tua lettera non è motivata dalla semplice constatazione di vivere in un corpo ormai “squadernato”, come icasticamente descrivi quell'”involucro” che non senti più appartenere a te stesso. L’innaturalità della tua situazione, caro Piergiorgio, è proprio in quest’afasia, in questa, vorrei dire, schizofrenia, in questo cortocircuito che ha diviso con brutalità la realtà sensibile dal tuo spirito.

Dicevo che, secondo me, il motivo ultimo che ti ha spinto a quell’accorato appello non può essere stato il “semplice” – permettimi l’aggettivo, e scusa se ricorro a espressioni banali, goffe e inadeguate – dolore fisico. No, è la consapevolezza dell’ingiustizia della nostra sorte. Perché il male? Perché soffrire? Perché – soprattutto – soffrire senza scopo?

E’ la tua dignità umana che ne viene ferita, scossa, è l’eterna domanda dell’uomo che si ribella, è il grido della sofferenza innocente. Insieme a te gridano gli anziani lasciati soli in squallidi ospizi, i bimbi violati, i bimbi soldato, i morenti di fame, sete, banali malattie, le donne brutalizzate. Il tuo è il grido di Giobbe, cui gli amici dotti nella Scrittura non riescono a fornire risposta. Ma è, non dimenticarlo, anche e soprattutto il grido di Cristo. “Elì, Elì, lemà sabactani?”. Ma Dio non rispose.

Nemmeno io posso risponderti. A te viene negata anche quella possibilità, quella morte “liberatrice”. Una cosa sola mi sento di dirti: se e quando staccheranno quella spina, Piergiorgio, io piangerò, perché mi sentirò privata di una parte della mia umanità. Perché sarò più povera, più sola. Perché non so cosa accadrà a me, quando mi accadrà, e cosa farò. In una società che non esalta la vita, qualsiasi vita, in qualsiasi modo. In una società che preferisce “staccare la spina”, o che vorrebbe farlo, piuttosto che accompagnare tutti a una morte serena. Perché le ricerche sarebbero troppo dispendiose. Perché i malati terminali non “servono” più. Perché le famiglie hanno loro voltato le spalle. Perché non ci si prende cura dell’altro, non si vede nell’altro il proprio volto.
La tua morte è davvero l’unico “premio” che meriti? E il tuo corpo rigido, impersonale, scarnificato, sacrificato, credi davvero non trasmetta più niente? Credi non susciti un grande, immenso abbraccio d’amore, proprio come il “silenzio” di Dio a Cristo?

Daniela Tuscano

(Vedi anche: Dichiarazioni di Cappato, Pannella, Berardo, http://www.lucacoscioni.it/node/7133, UAAR, Cosa intendiamo per eutanasia?http://www.uaar.it/laicita/eutanasia/, Giovanni Paolo II, lett. enc. Evangelium vitae http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_25031995_evangelium-vitae_it.html, B. Sorge, Eutanasia, atto d’amore o delitto?, http://www.donboscoland.it/articoli/visualizzaarticolo.pax?idrealta=1&ID=2594, La vita è per tutti: Maria Luisa, perché dico “no” all’eutanasia, https://danielatuscano.wordpress.com/2006/02/13/la-vita-e-per-tutti-maria-luisa-perche-dico-no-alleutanasia/)

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24 commenti Add your own

  • 1. PetaloSs  |  24 settembre 2006 alle 14:18

    Io la penso come lui, ammiro molto il coraggio di decidere che è giunta l’ora di porre fine ad una vita, anche di una apparente nn/vita.. Lo so che decidere per gli altri è sempre troppo facile ed in questi casi e impossibile immedesimarsi in una situazione così estrema..
    sono cmq sconcertato da quanto può essere assurda la vita..
    Non aggiungo di +. c’è veramente molto poco da dire in questi casi.

    Rispondi
  • 2. luna  |  24 settembre 2006 alle 20:32

    Io credo che ognuno abbia il diritto di scegliere come vivere, perciò anche come e quando morire. La morte fa parte della vita. La dignità di una persona è parte integrante della sua libertà.
    E’ da vigliacchi negare, nascondere, che a volte una morte dignitosa è preferibile a una vita che non è più tale.
    Ognuno deve poter scegliere per sé.

    Rispondi
  • 3. danielatuscano  |  24 settembre 2006 alle 23:49

    Ho sottoposto alla vostra attenzione molti link proprio per evitare, fin dove è possibile, approssimazioni e superficialità su un tema così cruciale. Non stanchiamoci di riflettere, non rispondiamo sventatamente. Come ho detto all’inizio, lungi da me giudicare. Ma siamo sicuri che l’eutanasia sia proprio l’unica via d’uscita? E’ poi vero che la vita sia sempre e soltanto “nostra”? Perché gli Stati non finanziano maggiormente la cura palliativa http://www.simg.it/servizi/servizi_riviste98/terapia_palliativa.htm (a Milano viene praticata all’ospedale Sacco, http://www.hsacco.it/ita/infettivi2/pubblicazioni.html)? Mi permetto di riportare altri due interventi, quello (acuto come al solito) di Francesco Merlo e la voce della senatrice Binetti. Da notare il passaggio riguardante la famiglia. Buona lettura.

    Da “la Repubblica” 24 settembre 2006

    Quella legge impossibile sul diritto alla morte
    Ve lo immaginate il nostro Parlamento, questo scombiccherato e rissoso Parlamento, che discute su come e se aiutare Piergiorgio Welby a morire? Provate a pensare alla ferocia di un duello legislativo sull´eutanasia. E, ancora, concentratevi sui quei tanti corpi di italiani, già Campo di Marte delle più inutili terapie mediche, abbandonati all´estremo invelenimento di una qualche campagna elettorale.
    Con i politici – questi politici – pronti a usare e ad abusare di mogli e figli già straziati dall´intollerabile sofferenza degli impotenti, dai sensi di colpa che sempre appesantiscono le strategie terapeutiche familiari spesso inciampate in qualche intemperanza verbale, in qualche stanchezza, in qualche cura di troppo o di meno. Immaginate queste famiglie che diventano preda della demagogia politica italiana, nella consapevolezza di essere tutti inadeguati, e con quella costante tentazione di finirla, di finirlo, di finirsi. Ho un amico medico che, come ultimo omaggio al proprio padre, ai resti del proprio padre, al suo ricordo, decise, con un groppo alla gola, di staccare la spina al guscio mortificato e abbrutito da tubi e pannoloni, rantoli, spasmi e piaghe. Non si rivolse al capo dello Stato, non disse nulla al primario né al direttore sanitario, non cercò conforti istituzionali perché pensava che la politica non può e non deve legiferare sui problemi insolubili: quando uno è morto, e quando è invece vivo, e quali sono i protocolli affettivi e i protocolli medici, e come si può rispettare ogni religione senza intolleranze laiche ma senza violare, per intolleranze religiose, la volontà di andarsene di un degente terminale che ha perduto la propria dignità. «Per dignità – scrisse Indro Montanelli rivendicando il diritto di decidere lui quando morire – intendo anche (e dico anche) l´abilitazione a frequentare da solo la stanza da bagno». Non se l´abbia a male il capo dello Stato Giorgio Napolitano: ci sono cose essenziali, come il desiderio e il bisogno di morire, come l´ottimismo radioso e il pessimismo cosmico, come l´amore di due persone che stanno assieme, si stringono per le mani ed evitano il naufragio, come il momento nel quale bisogna staccare la spina…., ci sono insomma alcune cose che esigono la solitudine e dalle quali la politica deve restare lontana. Voglio dire che il capo dello Stato non ha nessuna competenza sul desiderio di morte di un malato come Piergiorgio Welby, immobilizzato a letto da una distrofia muscolare, presidente dell´associazione Luca Coscioni. Da appassionato radicale, Welby, con il suo appello mandato a Giorgio Napolitano e a tutti gli italiani, vorrebbe accendere attorno al proprio diritto alla morte un confronto appassionato, umano e giuridico, vorrebbe aprire una battaglia legislativa sull´eutanasia, sulla terapia del dolore, sulla dignità della morte, su tutti gli argomenti controversi che stanno al di qual del bene e del male, dove nessuno ha ragione e dove il compito della politica, dell´altissima politica, secondo il capo dello Stato, sarebbe quello di tenere conto di tutte le ragioni. Ebbene, hanno torto sia Welby sia Napolitano: non tutto quel che avviene nei territori della Repubblica italiana deve essere risolto – presieduto – dal capo dello Stato e non è il Parlamento che può legiferare sul diritto del paziente di decidere fino a che limite le sue forze lo dispongano all´accettazione delle sofferenze fisiche o morali di un´agonia senza speranza. Davvero la politica non c´entra, non è questione di destra o di sinistra, ma di concezioni personali, dei singoli individui: quale legge può fissare la soglia del dolore, oppure distinguere tra lucidità e disperazione? Quale ministro può essere delegato a stabilire se una persona ha dei buoni motivi per voler morire? E ci può essere una squadra di intervento che abbia per missione l´eutanasia? E ve li immaginate D´Alema e Fini che disputano a Porta a Porta sull´equilibrio tra il suicidio e l´omicidio, tra la truffa e la fede, tra il serial killer e il medico illuminato? Ecco perché mi rimane nel cuore l´esempio di quel mio amico medico che parlò solo con me perché aveva bisogno di sfogarsi, e perché sapeva già che io gli avrei dato ragione. Pensava, quel mio amico, che suo padre era stato un uomo grande grande grande e che quel coma irreversibile era una vendetta, il conto che la vita presentava ad un uomo che aveva saputo vivere bene. Mi parlava di quel cervello che era una struttura vegetativa, di quel corpo che era ormai uno sberleffo, e diceva che un corpo abbandonato é sempre un corpo in ostaggio. Nell´antichità, persino durante le battaglie veniva concessa una pausa per recuperare i corpi: gli scontri riprendevano, ma diminuiva la crudeltà. Così, se il corpo di Patroclo fosse sparito, il duello tra Achille ed Ettore sarebbe stato meno feroce. Quel mio amico, che era un neuropsichiatra cattolico, e che poi è morto anche lui, mi diceva che spetta alle persone più vicine, ai medici, a un fratello, all´amico o all´amica, di liberare i corpi e restituire dignità a un ricordo. E, da medico esperto, mi spiegava che la morte silenziosamente assistita si diffonde irresistibilmente, in Italia e in tutta Europa, praticata discretamente negli ospedali e nelle case, dai medici, dagli infermieri, dai familiari. Piergiorgio Welby sa che in ogni uscita c´è un´amara saggezza personale, che il suicidio e anche ‘l´aiuto a morire´ sono diritti naturali che non hanno bisogno di leggi e di Parlamenti e di presidenti della Repubblica, anche perché nulla è determinato in maniera irreversibile, e la morte e la vita non sono definibili con esatta precisione: non c´è legge che possa dominarle e governarle. Insomma ci sono decisioni che si prendono da soli, e non ci può essere un´assistenza alla morte delegata all´Asl, con il ticket da pagare, la ricetta del medico di famiglia, l´onorario per aiuto al suicidio. Mi viene in mente il professore di economia Federico Caffé che, dopo aver vissuto per l´Economia, decise di sparire o, meglio, di far sparire il proprio corpo, di cui non sopportava quel degrado fisico che avrebbe comportato costi altissimi nell´economia affettiva dei propri allievi e dei propri familiari. Eppure proprio la matematica insegna che, nascosto da qualche parte, c´è sempre un elemento imponderabile, quella cosa strana che si chiama vita e che potrebbe essere stanata e rimessa in circolo anche da una battaglia radicale sulla propria morte come quella che sta conducendo il disperato, vitalissimo Piergiorgio Welby.

    Francesco Merlo

    Binetti: approviamo una legge ma non abbandoniamo il malato
    ROMA – «Non so se arriveremo rapidamente ad approvare una legge», Paola Binetti, esponente della Margherita, firmataria di un disegno di legge, auspica un accordo, ma certo non ha fretta. Soprattutto se concludere, significa venir meno ad alcuni principi.
    A lei non piace l´idea del testamento biologico?
    «Vedo difficile che così, a freddo, si possa fare una dichiarazione su scelte come queste, rischiano di essere solo delle dichiarazioni di principio, affermazioni di massima, si può dire solo “non voglio l´accanimento terapeutico”».
    E invece cosa si può fare?
    «Innanzitutto credo che già nel codice deontologico del medico ci siano principi che impediscono qualsiasi forma di accanimento terapeutico, che sia prevista la possibilità di stabilire con la famiglia quale siano le modalità migliori per vivere la malattia. Vedo molto importante la relazione di fiducia col medico insieme al quale si può fare un progetto condiviso di terapia».
    Una legge è necessaria non tanto per persone che sono coscienti e quindi possono respingere qualsiasi terapia ma per chi non è più in grado di decidere.
    «Questo caso è stato montato da una persona cosciente, di grande intelligenza, che ha fatto una dichiarazione importante dal punto di vista bioetico, non da una persona che non può decidere».
    Allora quali potrebbero essere i punti di una legge per chi poi non potrà scegliere?
    «Una buona legge deve chiarire che non serve dire no all´accanimento e bisogna tenere soprattutto conto che idratazione ed alimentazione non sono mai accanimento».
    I medici dicono però che la nutrizione e l´idratazione di un malato in coma sono solo alcune delle terapie che si fanno, ce ne sono molte altre necessarie a tenerlo in vita.
    «Diciamo che noi dobbiamo prenderci cura del malato e tenere presente la proporzionalità tra disagio delle cure e risultati».
    Nei disegni di legge a favore del testamento biologico si prevede la figura del fiduciario, una persona a cui si delega il controllo sulle proprie scelte, qualcuno che faccia in modo che la nostra volontà sia rispettata.
    «Questa cosa mi mette grande tristezza, mi fa capire quanto sia in crisi l´istituzione della famiglia, una volta era un familiare stretto a prendersi cura del malato. Mi sembra che in questo modo partiamo dal punto di vista che il paziente sia solo, comunque il fiduciario non può essere solo uno che mette una firma».
    È favorevole alle terapie contro il dolore?
    «Sono assolutamente a favore e vorrei che fossero più accessibili, ci sono troppe difficoltà».
    Come vorrebbe una legge?
    «Sono favorevole ad una legge che rispetti la dignità del morire e che tenga lontano l´accanimento terapeutico quanto l´abbandono».

    m. c.

    Rispondi
  • 4. PetaloSs  |  25 settembre 2006 alle 0:26

    Cito questa tua frase daniè: Ho sottoposto alla vostra attenzione molti link proprio per evitare, fin dove è possibile, approssimazioni e superficialità su un tema così cruciale. Non stanchiamoci di riflettere, non rispondiamo sventatamente.

    Mi spiace, ma il tema sull’eutanasia io l’ho affrontato molto tempo fa, nn è certo un pensierino che mi è venuto al momento solo dopo esseremi emozionato alla lettere di Piergiorgio… Io ho seguito tutti i casi di richieste di eutanasia da quando ne ho sentito parlare, tempo fa ad oggi, e nn mi trovo per niente un superficiale a trovarmi d’accordo… la vita è un bene prezioso che vale la pena vivere anche quando è brutta, diceva la mai troppo compianta Oriana Fallaci.. una frase stupenda che mi è entrata dentro, ma nei casi estremi dove nn c’è via d’uscita, dove nn c’è guarigione e l’unica cosa da fare è aspettare la fine, io credo che una persona con piena faccoltà mentale possa decidere di anticipare il destino ormai segnato.. ma è un discorso troppo soggettivo, puoi portarmi tutte le motivazioni che vuoi, i pareri illustri che vuoi, ma preferisco fare un transfert: io nella medesima condizione di Piergiorgio avrei voluto la stessa identica cosa.. e nn mi sento ne superficiale ne egoista..

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  • 5. danielatuscano  |  25 settembre 2006 alle 0:37

    Parlavo in generale, anche per me. Non sentirti sempre chiamato in causa. Il tema è serio e speriamo partecipino altri.

    Rispondi
  • 6. PetaloSs  |  25 settembre 2006 alle 0:40

    (Bhè erano solo 2 post, ed erano anche molto simili..)

    cmq l’argomento è davvero molto serio, e mi auguro davvero che intervengano in molti anche per scambiarci opinioni..

    Rispondi
  • 7. luna  |  25 settembre 2006 alle 10:55

    Anch’io resto convinta che si debba poter scegliere. Farò un esempio che so molti non condivideranno: l’aborto. Io non lo farei, ora, con la mia testa e la mia situazione, come ora, con la mia testa e la mia situazione, non sceglierei l’eutanasia. Ma ognuno ha la sua storia, la sua strada. Sì, credo si debba poter scegliere.
    Cura palliativa? Non è solo costosa. E’ un “addormentare” la persona. L’ho sperimentato con mia nonna. Momenti di sollievo, di sonnolenza, di sogno, alternati con crisi lancinanti di dolore. Non è vita, davvero.

    Rispondi
  • 8. danielatuscano  |  25 settembre 2006 alle 13:35

    Cara Luna, proprio qui volevo arrivare. Il fatto che abbia citato così tante fonti (l’una diversa dall’altra), non era per fare sfoggio di pareri illustri, né per alimentare la solita diatriba eutanasia sì-eutanasia no. Anche perché, come puntualizza oggi Umberto Galimberti, sia chi si dichiara a favore, sia chi si dice contrario sono però concordi nel desiderare il bene (o il meglio) per il malato e per condurlo a un’esistenza – o a una morte – il più dignitosa possibile.

    E’ vero, io tendenzialmente sono contraria all’eutanasia, non per un divieto religioso, ma per qualcosa che lo precede: come consideriamo la nostra vita e il mondo che ci circonda. Non si tratta di condannare o di assolvere perché, diciamola tutta, nessuno di noi sa come arriverà in quel momento. Pertanto le ideologie non servono. Non a caso ho segnalato, tra i vari link, non soltanto le teorie degli studiosi, ma anche un incontro con chi questa realtà la vive sulla propria pelle: Maria Luisa, di Brindisi, la cui sorella si trova in “stato vegetativo permanente” ma, a quanto pare, non ha alcuna voglia di andarsene. Anche su “Repubblica” di oggi c’era una splendida testimonianza in tal senso, che riporto fra i commenti all’intervista di cui sopra per non appesantire troppo questo post.

    La mia chiacchierata con Maria Luisa è stata pubblicata anche sulla rivista “La Casa dei Risvegli di Luca”, associazione che si batte per non staccare la spina ai comatosi, e che conta fra i suoi iscritti anche il comico Bergonzoni di cui lascio qui di seguito alcuni profondi pensieri (Bergonzoni non fa soltanto “ridere”, è anche un fine intellettuale). Non avrei avuto difficoltà a pubblicare pure un’intervista pro-eutanasia, ma la persona che avevo individuato non mi ha mai risposto. Sarò quindi ben lieta di ricevere, magari dalle tue parole, un’informazione più completa (se la cosa non ti arreca troppo dolore). Ci stiamo lavorando anche a scuola, quindi ragione di più per stimolare il dibattito. Un salutone!

    Da “La Repubblica” del 25 settembre 2006

    “Solo Welby può decidere della sua esistenza”

    BOLOGNA – Alessandro Bergonzoni, lei, scrittore e «uomo di parola», sostiene la “Casa dei risvegli” contraria a staccare la spina a chi è in coma. Che cosa pensa del caso di Piergiorgio Welby?
    «Lo dirò dopo aver ricordato Gian Piero Steccato, un “locked in”, che non può muoversi, non vede, non parla, ma ha scelto di vivere come verrà a dirci il 6 e 7 ottobre alle Giornate del coma».
    Contrappone un appello alla vita a chi invoca la libertà di morire?
    «Nessuna contrapposizione. Ma lo Stato non deve mai lasciare una famiglia in condizione di non avere più niente a cui aggrapparsi».
    Welby vuole porre fine a una non vita. Chi può decidere?
    «Lui soltanto. Nessuno può negargli questa libertà. Lo dico in punta d´anima, con un enorme carico di dubbio e di ansia, perché mi rendo ben conto che si tocca un tema delicatissimo».
    E chi mette in pratica questa scelta dolorosa?
    «Un medico, forse, insieme alla famiglia».
    Una legge per permetterlo?
    «Qui, per me, nasce il problema. Ogni caso è a se stante».
    L´eutanasia come scelta limite?
    «Nessun automatismo, assolutamente. Una legge può affrontare il testamento biologico e io sono favorevole. Ma a condizione che si possa cambiare. Una decisione così va presa in quel momento».
    Eppure è di una legge che si parla.
    «La morte è troppo importante per essere lasciata a medici e avvocati. C´è una storia prima, che andrebbe conosciuta: ecco perché parlo di Steccato e di chi viene abbandonato. E c´è un dopo: il nodo non si scioglie con l´eutanasia, lì deve iniziare una riflessione sulla morte».
    Se non decide solo il legislatore, chi?
    «Qualcosa di più alto, la spiritualità. Non parlo di religione, di cattolici o buddisti, ma di apertura dell´anima. Se riscoprissimo una cultura della morte, se coinvolgessimo non solo la legge e la medicina, ma l´arte e la letteratura, se uscissimo dai casi di cronaca, forse ci avvicineremmo alla soluzione».

    Luciano Nigro

    Rispondi
  • 9. luna  |  25 settembre 2006 alle 17:12

    Sì, io ho visto come si finisce, logorandosi e consumandosi (non solo fisicamente).
    Mia nonna era come me, solare e spensierata. Amica di tutti.
    E mia nonna aveva un tumore. L’avevano operata due volte e già la seconda era distrutta, cominciava a non avere più fiducia, a non credere più di farcela.
    I medici dissero di aver fatto del loro meglio, ma alla seconda operazione avevano lasciato tutto come stava, l’intervento era durato nemmeno mezz’ora. Ammisero di non poter fare nulla e consigliarono di riportarla a casa.
    Avevano capito tutti, tranne me.
    Tutti se l’aspettavano, tranne me.
    E non ero più una bambina, avevo 21 anni.
    Io pensavo che tutto sarebbe tornato normale, che sarebbe guarita, bastava che riprendesse peso. Era diventata uno scheletro. Le portavo nutella e mascarpone nell’illusione che potesse farle bene. E ridevamo. “almeno c’è un lato positivo… ti godi la cioccolata!”
    Poi un giorno andai a trovarla. Non voleva vedere più nessuno da mesi. Quel giorno si lamentava, soffriva, piangeva e le punture non arrivavano. Mio nonno mi disse che era così da giorni. Lei gridava nel letto.
    Mi disse “Dammi una gocciola d’acqua” ma non poteva berla.
    Io le chiesi se voleva che pregassimo insieme e lei rispose “Non mi ascolta più.”
    E continuò a gridare o a mordersi le labbra per non farlo, mentre cercavamo disperatamente un dottore perché le punture in farmacia non te le danno, non più di un certo numero per ricetta. Ce ne voleva un’altra. Passarono ore, o forse sembravano, non lo so. Poi il nonno le fece la puntura e lei si addormentò.
    La sera andai a casa e litigai con tutti. Ero arrabbiata, fuori di me.
    Quel giorno – e da tanti altri giorni – mia nonna non c’era già più.
    La notte morì.

    Eppure se mi avesse chiesto di aiutarla a morire non ce l’avrei fatta.

    Credo debba esserci libertà di scelta, ma non saprei, non potrei aiutare qualcuno a morire. Come sono vigliacca.

    Rispondi
  • 10. danielatuscano  |  25 settembre 2006 alle 17:44

    Non sei per niente vigliacca, Luna, è la tua umanità profonda che si ribella all’idea. Non possiamo “aiutare” nessuno a morire, eppure restiamo sgomenti di fronte ai “silenzi” di cui parlavo nella lettera aperta a Piergiorgio.

    Ti ringrazio per aver voluto condividere in questa sede una parte così importante dell’esistenza tua e di tua nonna. Mentre leggevo mi sembrava di vedere la scena: anche a me, in parte, è successo con mio nonno. Scrivo in parte perché la sua agonia è durata meno, o forse io vi ho assistito meno; è toccato a mia madre assisterlo fino all’ultimo, le è morto fra le braccia. Soffriva ormai molto, gli ultimi momenti non poteva più parlare. Ma poco prima che accadesse, aveva confidato a mia madre, con la voce di un bambino: “Non voglio morire”. Poi comunicavano col viso, lui riuscì a sorridere fino all’ultimo appena sentiva un po’ di ristoro.

    Io la penso come te. Sono contraddittoria (all’apparenza) come te. Con Bergonzoni dico: dev’esserci libertà di scelta. Al tempo stesso aggiungo: ma io non potrei… ecc. ecc. E ripeti, come in un assurdo mantra: non è giusto, non è giusto, non è giusto…

    Nessuno ha mai trovato una soluzione al dolore del mondo. Eppure sono convinta che parlarne sia necessario. Oggi la nostra cultura ha censurato non solo la morte, ma anche la malattia. Ci vuole tutti belli, giovani, efficienti e sani. Poi, quando ci “guastiamo”, via, come un oggetto inservibile.

    Anche questa è una non-vita.

    Rispondi
  • 11. Daniele  |  26 settembre 2006 alle 10:53

    C’è poco da dire di fronte a situazioni del genere. Il dolore e la sofferenza sono intime, proprie e forse impropri possono essere i giudizi che molte persone emettono dando fiato alla bocca senza essere certi di aver collegato il cervello.
    Il rispetto alla vita, è giusto, ma in certe situazioni mi chiedo: è davvero rispetto alla vita? Oppure egoismo?

    Rispondi
  • 12. sara  |  26 settembre 2006 alle 11:49

    Ho diritto di morire?
    Eutanasia, sì o no
    Il nostro nuovo presidente della Repubblica con la sua lettera a Piergiorgio Welby ci invita a riflettere su questo argomento: l’eutanasia è giusta o sbagliata?
    Noi ne abbiamo parlato a scuola.
    Molti pareri sono in contrapposizione: c’è chi crede che non sia giusto che questo argomento venga trattato dalla politica, ma solo dalla medicina o dalla scienza; altri pensano che nessuno si meriti di vivere una vita nella sofferenza e nella tortura o di negare il diritto di morte; la Chiesa invece si mette in contrapposizione con tutti questi pareri e dice che l’eutanasia è una forma di assassinio e siccome la vita è un dono è come rifiutarla o addirittura distruggerla.
    L’uomo che si trova nel centro di questo caso e che lotta per il suo diritto di morire, ha 60 anni, si chiama Piergiorgio Welby, è affetto da una distrofia muscolare, malattia purtroppo incurabile, che comunque lo porterebbe molto presto alla morte.
    Lo Stato in questo caso si trova in difficoltà, perché se non concedesse l’eutanasia toglierebbe la libertà di decidere al cittadino per se stesso, allo stesso tempo se lo Stato approvasse l’eutanasia è come se concedesse il suicidio. E’ per questo che si dovrebbe forse promulgare una legge che conceda l’eutanasia solo a un malato che non ha più possibilità e che sia cosciente delle proprie azioni.
    Io credo che un parere medico sia molto importante per capire, approfondire e schiarirci le idee sull’argomento.
    Ci sono persone che hanno molta più paura della morte di qualsiasi altra cosa, però, credo, che quando si soffre psicologicamente e fisicamente per una malattia, che si sa che non si potrà curare e che moriremo per quest’ultima, non si voglia soffrire, ma si desideri “dare un taglio”.

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  • 13. Nicco  |  26 settembre 2006 alle 14:17

    Ho avuto modo di vedere la sofferenza: mio nonno fu colpito da una leucemia fulminante, mia nonna da un cancro allo stomaco. Mio nonno è morto nel giro di qualche mese, mia nonna è stata malata per più di sette anni, aperta per tre volte e si sapeva bene che non c’era nulla da fare. Mio nonno era un omone alto un metro e ottanta, grande come una montagna, scoppiava di salute, andava sempre in campagna a guardare e a curare i suoi alberi, mio nonno mi voleva un gran bene perché gli somigliavo e perché portavo il suo nome, mio nonno negli ultimi tempi non mi riconosceva più, non sapeva come mi chiamavo, non sapeva chi fossi, ero piccolo, dissi a mio fratello “ha perso la memoria” mia madre mi dette un ceffone perché mio nonno non si ricordava neppure di lei, di sua figlia, mio nonno non si muoveva più, non camminava più, non andava più tra gli alberi, non parlava: la sua vita era finita perché per un campagnolo stare inchiodato in un letto con le flebo e le trasfusioni significa essere già morti, avere abbandonato la propria vita, morire fisicamente è solo un effetto collaterale. Mia nonna era paffuta, almeno così mi sembra di ricordarla visto che si ammalò quando ero ancora un bambino piccolo, era sempre tra i fornelli a cucinare, a friggere, eravamo sette in famiglia e lei cucinava per tutti, mia nonna viveva per la casa e per mio nonno, tutti ci aspettavamo che a morire sarebbe stata lei per prima invece mio nonno se ne andò per primo. Per quanto possa andare indietro con la mia memoria non mi ricordo un mio solo compleanno dove mia nonna non fosse seduta su di una sedia, con la flebo attaccata, senza poter fare nulla tanto stava male mentre noi, immaginate con che gioia, festeggiavamo il mio compleanno. Alle volte stava meglio, riprendeva peso e ritornava paffutella come prima, ritornava a cucinare e a cucire, ritornava a mettersi i bigodini e visto che avevo le dita piccole piccole voleva che glieli togliessi io, ritornava la buona e bella donna siciliana che vive per la casa, per il marito, per i figli e per i nipoti. Poi mia madre e lei mancavano di casa per un mese, mia zia ( sorella di mia nonna) mi diceva che erano partite e quando tornavano mia madre era distrutta e mia nonna era di nuovo dimagrita, di nuovo con la flebo, di nuovo a letto e quando l’infermiere veniva a casa spiavo dalla porta e vedevo che le medicava la pancia perché perdeva sempre sangue. Mio nonno stava bene e mia nonna voleva vivere. Dopo la terza operazione mio nonno si ammalò, morì, mia nonna peggiorò, confondeva il giorno con la notte, una volta passò la processione della madonna e noi la facemmo fermare davanti casa nostra perché lei stava male ma lei non lo capì, era sempre a letto, mia zia piangeva come una disperata, mia madre era sempre con lei giorno e notte sperando che anche quella potesse passare e che mia nonna guarisse. Un giorno venne l’altra mia nonna a prendermi e mi portò, con mio fratello, a casa sua, era agosto, la pioggia ci stava seppellendo, mia nonna era come mio nonno, morta dentro, per lei non poter cucinare, non poter fare le pulizie, non avere mio nonno era come essere già morta, forse Dio ascoltò le sue preghiere e se la prese. Mia madre, mio padre, mia zia in quegli anni spesero tutte le loro energie per curare i miei nonni, mia madre non riesce più a vedere una goccia di sangue neanche quando scongela la carne perché pensa a mio nonno, mia madre avrebbe continuato sino alla nausea a curare i suoi genitori, mia zia piangeva perché sua sorella le diceva voglio morire e pregava Dio che se la prendesse, mia nonna e mio nonno neppure sapevano cosa fosse l’eutanasia, ma a loro modo pregavano Dio di morire e non credo ci sia tanta differenza perché pregare di morire è come chiedere ad un Medico speciale di staccare la spina, di darti quella dolce morte. Sono d’accordo che sia molto più importante incentivare la ricerca, la scoperta di nuovi farmaci o nuove cure per curare le malattie ma il punto secondo me non è questo. Se la malattia priva di dignità e di felicità la vita del malato, se la vita che sino a quel momento hai condotto sai per certo che non ti può essere ridata, se ti vedi negata la possibilità di vivere pienamente, se quello che ti si prospetta dinanzi è soltanto un procrastinare la morte fisica rimanendo in un limbo dove la vita è finita e la morte non arriva, dove non hai la possibilità di evolverti in nessun modo, che senso ha, non vivere, ma continuare ad esistere? Ad oggi mia madre si guarda indietro ed alle volte dice che avrebbe preferito che mia nonna fosse morta subito ma non per egoismo, d’altronde l’ha dimostrato, ma per amore perché vederla ridotta in quel modo era per lei una croce, sentire mia nonna chiedere di mio nonno, quando già era morto, sentirle dire voglio morire, perché Dio non mi prende, era vedere la sua anima intrappolata in un corpo che lei odiava e che noi disgraziatamente amavamo e non volevamo vedere andar via.

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  • 14. danielatuscano  |  27 settembre 2006 alle 17:07

    Sara scrive: “…Lo Stato in questo caso si trova in difficoltà, perché se non concedesse l’eutanasia toglierebbe la libertà di decidere al cittadino per se stesso, allo stesso tempo se lo Stato approvasse l’eutanasia è come se concedesse il suicidio”. Nicco scrive: “…era vedere la sua anima intrappolata in un corpo che lei odiava e che noi disgraziatamente amavamo e non volevamo vedere andar via”. Ambrogio Fogar, nel servizio che ho riportato nei commenti al link https://danielatuscano.wordpress.com/2006/02/13/la-vita-e-per-tutti-maria-luisa-perche-dico-no-alleutanasia/#comments, affermava: «Si può essere un rottame, ma avere ancora una speranza… Ogni piccolo problema, oggi, sta diventando un fastidio da eliminare. Noi paralizzati siamo ingombranti. Chiediamo: non dimenticateci, non lasciateci soli».

    Finché lotteremo contro il dolore e la morte, specie quello innocente e dei nostri cari, o dei bambini, non troveremo mai una soluzione definitiva e soddisfacente. Penso che, favorevoli o contrari a staccare la spina, non dovremmo mai perdere di vista la compassione (la passione con- e per- il nostro prossimo). La certezza che l’essere umano è sempre qualcosa di grande. Tutti i casi che abbiamo menzionato, celebri o no, hanno sperimentato e sperimentano la solitudine tremenda di ogni uomo e di ogni donna di fronte al male e alla morte. “Quando si muore, si muore soli”, cantava De André. Ma alcuni muoiono più soli degli altri. Quelli che non hanno nemmeno un parente o un amico accanto, a consolare o semplicemente a contemplare, magari con un senso di straziante impotenza, la loro fine. Quelli che non hanno neppure la possibilità di rivolgersi a un Presidente della Repubblica per l’impossibile richiesta di morire. Quelli che, un domani, saranno affidati a mani impersonali e impietose che non penseranno nemmeno a un’eutanasia, ma si sbarazzeranno di loro come di un’inutile cianfrusaglia. E’ quell’umanità, inerme ma pur sempre umanità, che dobbiamo salvaguardare. Per loro, per tutti noi. Non vinceremo la sofferenza e la scomparsa, ma garantiremo a tutti l’uguaglianza della tenerezza. Non mi sembra poco, davvero.

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  • 15. debora  |  28 settembre 2006 alle 7:57

    L’uomo. Cos’è l’uomo? È la domanda che fulminea attraversa la mia mente… L’uomo: essere vivente, che impone il suo dominio, che brama potere, attratto dai beni materiali… per queste cose è portato a uccidere la sua stessa razza, la sua “copia”, l’immagine di sé stesso e di Dio. A volte l’uomo è superficiale, ignora e crede di poter imporre un limite a tutto, perfino ad una vita. Abbiamo forse il potere di interrompere un’esistenza?
    Grandi poeti e scrittori del passato onoravano e dedicavano le loro opere all’uomo: essere superiore a tutte le creature e più vicino a Dio… ma oggi, cosa possiamo dire di noi, oggi?

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  • 16. sara  |  29 settembre 2006 alle 13:19

    Io resto convinta che quando una persona soffre molto e non ha più speranze senta il bisogno di lasciare la vita, senza pensare a chi lo circonda, che cosa potrebbe provare, potrei dire con un pizzico di egoismo.
    Credo inoltre che la compassione degli amici e parenti non aiuti, anzi credo che il malato si preoccupi di far soffrire chi gli sta intorno. Bisognerebbe dare una carica nuova, un aiuto morale che potrebbe far cambiare la decisione della persona che soffre. Ma quale aiuto?

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  • 17. Roberta*64  |  30 settembre 2006 alle 13:39

    grazie Daniela, ho così potuto mandare un mio pensiero…

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  • 18. raffaele mangano  |  30 settembre 2006 alle 13:57

    Abbiamo già avuto modo di discutere dell’ eutanasia. Ma l’ apparizione di Piergiorgio Welby in televisione mi impone di tornare sull’ argomento. Ha parlato attraverso la trachea, come un automa. Era doloroso ascoltare le sue parole, mentre la bocca restava chiusa e il viso immobile. Solo lo sguardo cercava di comunicare l’ angoscia della sua situazione. Al dibattito era presente il solito politico ottuso.
    A un padre che da 15 anni implora il rispetto delle volontà della figlia e a un coraggioso malato che invoca la fine della sua vita/ non vita, l’ ex ministro opponeva trite e consunte teorie sulla “fine naturale dell’ esistenza”. Come se avere tubi, flebo, macchine, pompe, elettrodi, in corpo sia “naturale”.
    Giovanardi, aggrediva, urlava, non ascoltava, interrompeva… Io guardavo il riquadro con il viso di Welby che non poteva replicare. Ed era un pugno nello stomaco.

    Soprattutto quella sua frase: tutte le sere quando prendo il Tavor per addormentarmi auguro a me stesso di non svegliarmi al mattino. Ecco, di fronte a questa dichiarazione, chiamiamolo testamento biologico, chiamiamolo come vi pare, con quali argomenti potremmo convincerlo che la sua vita debba terminare solo alla fine del processo naturale. E quella è una vita naturale, visto che sono le macchine a tenerla pulsante in modo artificioso? Io vorrei che i cattolici di Villa fiorita giosanna.terrana@fastwebnet.it, o semplicemente coloro che sono fautori della vita a oltranza, provassero a convincere Welby. Metto questa mail sul blog in modo che chi lo desidera può intervenire. Serenamente, liberamente. Ascolto ogni parere. Anche perchè, trovandomi in situazioni familiari dolorose e chiedendomi che cosa avrei fatto se mi fosse stato consentito, non riuscii a darmi una risposta.

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  • 19. danielatuscano  |  3 ottobre 2006 alle 17:18

    “Credo inoltre che la compassione degli amici e parenti non aiuti, anzi credo che il malato si preoccupi di far soffrire chi gli sta intorno. Bisognerebbe dare una carica nuova, un aiuto morale che potrebbe far cambiare la decisione della persona che soffre. Ma quale aiuto?”

    Carissima Sara, hai espresso un concetto profondissimo. Senza saperlo, hai usato le stesse parole di Nagib Mahfuz, uno dei massimi scrittori contemporanei di cui ti consiglio di leggere, aiutata dalla tua insegnante, alcuni brani del suo libro forse più bello: Il rione dei ragazzi.

    Ti sei messa dalla parte del più debole: e questo, in fondo, è il vero aiuto che puoi cominciare a donare alla persona che soffre, la tua empatia.

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  • 20. tempi di fratermità  |  1 novembre 2006 alle 16:13

    IL BUCO NERO

    Ho sempre avuto paura del dolore fisico, orrore del sangue; ricordo che alla vista delle ferite altrui, anche già grande,

    se dovevo occuparmene in prima persona, venivo presa dal panico e mi sentivo svenire.
    Per questo ho sempre temuto l’idea di dover affrontare la malattia mia o altrui… paura che innesca altre paure…

    Ho avuto la fortuna di non doverla incontrare più di tanto fino a circa un anno fa.

    Tutto ha inizio una sera come tante, in cui pensi alle tue cose da fare e di certo la tua mente non tiene conto del possibile imprevisto.

    Un incidente stradale provoca un grave trauma cranico, con lesione degli organi preposti all’equilibrio, a mia sorella, cui sono legatissima.

    Quando lo vengo a sapere non mi sembra possibile: ho sempre considerato mia sorella come un essere quasi immortale: un corpo ed un’energia inossidabili.

    Inoltre quante volte lei ha affrontato situazioni di elevata pericolosità e ora va a cadere così banalmente, a poca distanza da casa…

    Lascio ad altri valutare i torti e le ragioni, semmai ritengo immorale la superficialità, la prepotenza ed arroganza con cui attualmente sempre di più le persone vivano ed affrontino il traffico cittadino: una pericolosa partita in cui spesso ci si gioca la vita come alla roulette russa.

    Apro gli occhi la mattina dopo: ho dormito poco e male ed ora la realtà si fa nuovamente strada, non è più solo un qualcosa che fa parte di un brutto sogno: l’incubo è la realtà.

    L’incubo è la consapevolezza dell’incognita che devo affrontare: può andare bene, cioè guarire, può non andare e il male potrebbe avere mille facce. Ad una ad una mi sfilano nella mente tutte quante e mi sento crollare, ma non me lo posso permettere.

    Occorre reagire, parare come posso o riesco i colpi a mia madre ormai anziana e vivere giorno per giorno quello che può accadere.

    Più che vivere si sopravvive: con gesti meccanici mi alzo, sbrigo le mie cose e poi vado là sperando che la situazione migliori.

    I progressi sono impercettibili: dal non vomitare più al riuscire nuovamente a muovere la testa, a dire una parola…

    Tutto col tempo si è poi gradualmente risolto: lei piano, piano è guarita e ha ripreso la vita di sempre.

    Ma quando non è così… la vita diventa un calvario.

    Dal momento descritto altre vicissitudini famigliari hanno fatto sì che io venissi catapultata in un altro mondo in cui il dolore è la realtà, mentre la serenità e il benessere, che la vita quotidianamente e gratuitamente ti dà, diventano l’eccezione alla regola.

    È la realtà di chi vive accanto a persone colpite da un male incurabile.

    Sei proiettata in mille cose in più da fare, decisioni veloci da prendere (che tu sia sicura o no non conta: lo devi essere e basta, per te e per gli altri).

    Hai timori che devi tenerti dentro, quotidiane situazioni non facili da affrontare.

    Cerchi di conciliare tutto: la vita di prima con quella di adesso fatta di imprevisti che si susseguono, cui devi far fronte cercando di mimetizzare l’ansia che ti assale e il dolore che ti prende.

    La speranza col punto interrogativo

    È difficile stare vicino a chi si ammala quando la speranza ha il punto interrogativo, se si fa strada la certezza che il dolore ti accompagnerà per il resto dei tuoi giorni, pochi o tanti non si sa, ma di certo sai che non si prospettano tempi migliori.

    In questi casi devi continuamente dare energia positiva e raccogliere la negatività che assale il malato, sminuzzarla e smaltirla.

    Ti senti trasformato in un cestino organico dei rifiuti: una sorta di compost delle emozioni. Ed è questa la parte più difficile.

    Inizialmente non te ne accorgi, ma col passare del tempo questo ti svuota: tutto ciò che prima ti interessava e ti faceva gioire assume colori sfumati, opachi.

    Sai che il tempo corre e che non puoi permetterti di sprecarne nemmeno un secondo: tutto è da vivere e tutto al tempo stesso ti ricorda la morte.

    Così e peggio di così accade a chi si vede catapultato in prima persona in questo tipo di malattia, specie quando essa è senza uscita.

    Raccolgo e ripenso a frasi di persone amiche che hanno affrontato il cancro.

    O non guardi in faccia la realtà, ti illudi o ti lasci illudere che sia una malattia passeggera, ma se ne sei consapevole il più delle volte subentra la crisi psicologica.

    Dal pianto incessante alla depressione a frasi di questo tipo: “Ho cercato di vivere come se niente fosse, ma non ci riesco: la paura di morire si è fatta strada in me in modo sempre più tangibile. Per questo non riesco ad essere spensierata, allegra come gli altri vorrebbero.

    Perché dicono: DEVI REAGIRE! Per il tuo bene”.
    Già REAGIRE.

    Bella parola.

    La solita frase fatta che dice tutto e dice niente.

    Che ti viene la voglia di mandare a quel paese chi te la dice.

    Perché ci va energia per reagire. Occorre la forza di un elefante, di un caterpillar.

    Tutta l’energia che devi già utilizzare per affrontare le cure e i dolori che conseguono ad esse.

    Ci va energia per alzarti, uscire e sentirti ancora bella, per sentirti donna anche se i capelli cadono a ciocche, se le cure ti fanno venire la dermatite su tutto il corpo, se sai che entrerai in menopausa forzata a 35 anni.

    Ci vuole l’energia delle altre persone per farcela e magari neanche così la si fa, ma almeno non ti senti solo.

    Perché il più delle volte gli altri, anche le persone più care fanno solo da contorno, ma a soffrire ci sei tu e basta.

    Gli altri ben difficilmente riescono a capire, perché è difficile, è faticoso provare a calarsi nei tuoi panni.

    Gli altri restano sempre sull’altra sponda.

    ASCOLTARE
    COMPRENDERE
    COMPATIRE
    COMPASSIONE

    Queste sì che sono belle parole davvero.

    Dovremmo esercitarci tutti quanti in esse, ma per farlo occorre possedere UN CUORE SENSIBILE, un cuore capace di EMPATIA.

    Ma chi ce l’ha più un cuore ai nostri giorni?

    Ce lo siamo sottratto un po’ da soli e un po’ ce lo hanno rubato i ritmi sempre più frenetici di vita, i calcoli, il nostro lavoro, la realizzazione personale, la carriera, l’arrivismo che
    ci porta a calpestarci a vicenda.

    Tutto il resto viene dopo.

    Dimentichiamo i bisogni degli altri, a volte non sappiamo più neanche quali siano realmente i nostri… abbiamo perso di vista il senso dell’umanità.

    Il malato come un tossicodipendente?

    Le persone nell’era della globalizzazione dei mercati sono considerate risorse economiche e quando si ammalano non contano più, divengono pezzi inutili.

    La malattia sì, quella rende al mercato!

    Essa è un succulento business per le aziende farmaceutiche.

    Per chi si ammala di un male che non prevede soluzione (carcinoma, diabete, sclerosi, aids…) i soldi non bastano mai: le esenzioni non coprono le spese che si deve sostenere.

    Il tavolo di cucina si riempie di boccettini mentre la lista della spesa conta più medicine che pane e salame.

    C’è il farmaco e il controfarmaco che annulla gli effetti negativi del primo, ma il più delle volte ne produce dei nuovi.

    Così il malato diviene simile ad un tossicodipendente: le medicine sono la sua salvezza e solo con esse si sente un po’ più sicuro e quieto.

    Ma le medicine e i dottori NON SONO ONNIPOTENTI, anche se la mentalità occidentale ce lo ha portato spesso a credere.

    Esiste l’IMPONDERABILE ed è anche con esso che dobbiamo fare i conti.

    ENRICA, LUISA, ROSA e tante altre non ci sono più.

    Enrica se n’è andata in 3 mesi.

    Luisa ce ne ha messi 6, ma di atroci sofferenze.

    Rosa un anno e non ne so altro. So solo che era ancora troppo giovane per morire.

    Il suo male era uguale a quello di mia madre che nonostante gli anni, il dolore attraversato e che teme, vive ancora, ma i suoi occhi hanno perso la gioia.

    Vive perché si deve e non si può fare diversamente, ma ogni tanto dice: “Ho gli anni e questo male… che faccia solo in fretta”.

    La speranza che resta per tutti noi è che ci sia il minor dolore possibile.

    Ma siamo consapevoli che è una chimera anche se non vogliamo ammetterlo a noi stessi.

    Vivere

    Che significato dare a questo termine?

    In certi casi è ancora VIVERE?

    Dio perché ci condanni a queste sofferenze?

    Perché esiste il male e il dolore?

    Quali sono i suoi benefici? Proprio non li riesco né a vedere né a capire.

    Il mondo non sarebbe più bello senza?

    Dov’è o Dio l’amore che hai per gli uomini?

    È qui che non capisco.

    La mia rabbia sale fino a Dio che permette questo.

    Perché sono sempre di più gli innocenti e i poveri a pagare il prezzo più alto.

    Esigo un riscatto.

    Esigo un’altra vita degna di questo nome. Per tutti loro.

    O non sei un Dio giusto.

    O non esisti.

    La fede va in crisi il più delle volte perché non offre risposte e quelle che dà la Chiesa proprio non mi rasserenano.

    Forse chiedo troppo.

    Forse è che anche per me la vita ha perso i suoi colori.

    Diventi consapevole, che la vita è adesso, nell’ attimo presente, senza illusioni di immortalità.

    I medici

    Ci sono quelli veri in cui l’umanità è parte integrante del loro lavoro e quelli che il culo dallo studio proprio non lo alzano: hanno un orario prestabilito e da quello non si schiodano.

    Puoi anche crepare: “Si rivolga al Pronto Soccorso che non è ora”.

    In realtà il mio medico di medicina non ne capisce niente: ha già sbagliato la diagnosi a tre pazienti che conosco, ma continua imperterrita la sua professione.

    È stimata, si fa per dire, nel quartiere e in parrocchia: è una cattolica praticante.

    Fa anche della solidarietà, ma con il resto del mondo, con i pazienti no!

    Quelli devono aspettare…

    E poi che importanza ha oramai se pensavo che fossero emorroidi e per quello l’ho curata… le ho anche detto che non era proprio il caso di andare dallo specialista: quei disturbi se li doveva tenere e basta, che doveva imparare a sopportare il dolore.

    Invece era un carcinoma ovarico…

    Purtroppo lei non c’è più e ora non può più parlare.

    Del resto tutti possono sbagliare…

    Ma io ritengo che sbagliare più di tre volte sia un segnale preoccupante oltre che pericoloso per chi ti si affida.

    E non giustifico.

    D’altra parte i pazienti mica ne capiscono di medicina per cui… gliela si può sempre raccontare come meglio la si può far credere… così il più delle volte la faccia (del medico) è
    salva.p>

    I medici cui ti puoi affidare con fiducia li avverti a pelle: dall’umanità vera e non di facciata che posseggono.

    Dalla loro disponibilità a prendersi carico del malato.

    Sanno comprendere i bisogni, sanno ascoltare, sanno rassicurare, sanno infondere fiducia e coraggio.

    Sanno perdere tempo con te.

    Sanno amare.

    I loro occhi sono rivolti a te, non alla fattura o all’orologio.

    Perché il malato ha bisogno di cure, di medicine, a volte di interventi urgenti, di assistenza, ma ciò che fa la differenza è l’amore, la compassione e l’umanità che si dedica
    loro.

    La professione medica la si deve intraprendere consapevoli di questo e delle energie che essa richiede.

    Non bastano i 110 e lode sulla tesi di laurea per fare un buon medico, ma la competenza unita alla sensibilità e all’umanità.

    Un altro modo di essere medici, forse un po’ eroi, ma è di voi che c’è sempre più bisogno, non di burocrati o scribacchini.

    Ciò non vuol dire essere in grado di salvare a tutti i costi una vita: non sempre lo si può fare.

    Ciò che conta è avere fatto tutto il possibile per curare, per alleviare le sofferenze di quella persona, di aver utilizzato tutte le competenze disponibili per salvarla.

    Allo stesso tempo essere consapevoli del limite

    invalicabile.

    Proprio e altrui.

    Purtroppo esiste.

    Per tutti.

    Sara Vergnano

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  • 21. danielatuscano  |  1 dicembre 2006 alle 17:42

    Ho trovato su “Famiglia Cristiana” la seguente lettera. Circostanziate, puntuali e precise le domande, deludente la risposta del prete, che si trincera sostanzialmente dietro l’ignoranza dei testi magisteriali. 😐

    UN CREDENTE SI INTERROGA SU CONTRACCEZIONE, OMOSESSUALITÀ , EMBRIONE, EUTANASIA

    UNA VITA CON TANTE DOMANDE

    Ciò che deforma lo specchio della nostra intelligenza sono i pregiudizi, le precomprensioni, ma spesso anche le passioni, la cultura dominante, la moda oppure il contesto sociale.
    Caro padre, sono un credente, ma metto in discussione molte delle cose che vivo ogni giorno. Le faccio qualche esempio: la questione del preservativo. Premesso che la sessualità è un linguaggio d’amore, quante persone in preda alla solitudine o solo per riempire un vuoto si tuffano tra le braccia di chi riesce a dargli un po’ di calore? Non mi sento di condannarle e credo che la Chiesa dovrebbe essere più realistica e ammettere quei mezzi che tutelano da malattie e gravidanze indesiderate.

    Altra questione, un ragazzo di 14 anni mi ha chiesto: «Perché a me, che il Signore ha voluto omosessuale, dev’essere proibito trovare una persona da amare e realizzare con lei un progetto d’amore? Perché, mentre tanti miei coetanei si trovano la ragazzina e si scambiano effusioni, io non posso farlo? Ti sembra giusto?». Il sacerdote sceglie di seguire Cristo e in virtù di questa scelta accetta tante rinunce. «Ma io», prosegue questo ragazzo, «non voglio scegliere qualcosa che non sento come mio! Io voglio amare una persona. Chiedo tanto?».

    Perché, padre, queste domande – a mio avviso legittime – se le pone un ragazzino di 14 anni e non se le pongono invece le schiere di prelati, filosofi e teologi che affollano le poltrone ecclesiastiche? Perché scagliarsi contro Zapatero e le sue leggi a favore degli omosessuali e non, invece, contro quei capi di Stato che alimentano l’odio razziale e curano i propri interessi petroliferi a costo di milioni di vite innocenti? Il Dio che conosco io ha le braccia tese, non conserte. È un Dio che vuole un’esistenza dignitosa anche per le minoranze e gli indigenti.

    Ancora. Perché non possiamo partire da valori comuni a tutti, credenti e non, per costruire un futuro migliore? Perché dobbiamo dare per scontato che la religione cattolica sia l’unica da abbracciare, in barba all’ecumenismo o allo Stato multiconfessionale? Perché devo credere che poche cellule embrionali siano già configurabili come persona? E non mi si risponda trincerandosi dietro ai dogmi di fede. Perché devo tutelare e rispettare chi, costretto immobile in un letto, decide di continuare a vivere mentre non posso tutelare e rispettare chi nella medesima posizione non vuole continuare a “vegetare”? Dove finisce il libero arbitrio?

    Pasquale

    Sarebbero necessarie molte pagine per rispondere alle sue numerose domande. La natura della rubrica non lo consente (sono però temi che abbiamo trattato in più occasioni). Possiamo affrontare un problema che ritroviamo nei suoi quesiti, ed è l’atteggiamento del cristiano di fronte a problemi di interesse vitale. C’è tanta gente che vive senza pensare e senza porsi mai degli interrogativi. Non è il suo caso. Lei, infatti, si interroga su contraccezione, omosessualità , natura dell’embrione, eutanasia. E avendo coscienza dei suoi limiti, si rivolge a chi ritiene possa aiutarla.

    Ma a chi chiede aiuto? A questa rubrica. La ringraziamo per la fiducia che ci accorda. Ma rimaniamo perplessi quando abbiamo l’impressione che si rivolga a noi perché ritiene di non potersi fidare delle «schiere di prelati, filosofi e teologi che affollano le poltrone ecclesiastiche» . È un atteggiamento che si sta diffondendo sempre più. Molti cristiani pensano che la Chiesa affidi la soluzione dei problemi che angosciano l’umanità a persone che non hanno altro titolo che quello di occupare le poltrone del potere.

    Sappiamo che questo stereotipo è diffuso e induce molti cristiani a rifiutare l’insegnamento della Chiesa, specialmente quando si tratta di problemi riguardanti l’amore, la sessualità, la procreazione, la vita. L’accusa ricorrente è: «vivono lontani dalla vita reale e non capiscono i problemi dell’uomo d’oggi». Oppure: «sono più preoccupati di difendere i princìpi che di salvare l’uomo».

    Ma se le cose stanno così, dovremmo allora concludere che Gesù ci ha ingannati quando ha promesso che sarebbe stato con noi fino alla fine dei tempi e che avrebbe inviato il suo Spirito per portarci alla comprensione di tutta la verità.

    Coloro che lavorano all’elaborazione dei documenti ecclesiali sono persone che, per dottrina ed esperienza, offrono la garanzia di proporre soluzioni studiate e sofferte, che non danno le risposte facili che molti si aspettano, ma cercano quella risposta che metta in armonia il bene del singolo con il bene della comunità e col bene proposto dal Maestro divino. E come cristiano so che chi dà la risposta finale a problemi di carattere dogmatico e morale gode dell’assistenza dello Spirito, che con la sua presenza offre al popolo di Dio la sicurezza di camminare nella via della salvezza.

    Però, quanti di questi documenti arrivano nelle mani dei cristiani e vengono letti? Lei stesso, quante volte ha avuto l’occasione di farne oggetto di studio e di riflessione? Il dubbio nasce proprio dal fatto che a ogni domanda che lei pone, la Chiesa ha dato una risposta nel recente passato in altrettante Lettere, Esortazioni apostoliche, Encicliche. Purtroppo dobbiamo constatare che gli scritti che la Chiesa invia ai suoi fedeli per aiutarli a vivere nella verità spesso cadono nel vuoto. C’è desiderio sincero di capire, ma non si fa lo sforzo di leggere, e soprattutto di accettare quanto il Magistero propone. È vero che, talora, questi documenti hanno bisogno d’essere approfonditi e spiegati, come avviene in molte parrocchie con sussidi e incontri. Ma anche in questo caso rimane aperta la domanda: quanti frequentano questi incontri? E specialmente: quanti credono che la Chiesa abbia veramente l’assistenza dello Spirito quando si pronuncia in modo ufficiale su problemi di fede e di morale? Ormai la fonte che informa e presenta questi documenti sono i mass media, che sono i meno qualificati per cogliere la sostanza di questi interventi della Chiesa e per aiutare i fedeli a capirli.

    Non è raro che molti credenti, basandosi su quanto raccontano i quotidiani, rifiutino il messaggio della Chiesa, senza preoccuparsi di verificare se quanto scrivono i giornali corrisponde veramente ai contenuti dei documenti ecclesiali. Se poi si è anche condizionati dal pregiudizio che la Chiesa affida il compito di illuminare i suoi fedeli a persone “senza competenza” su alcune materie, tutti gli interventi della Chiesa diventano inutili.

    San Tommaso dice che la nostra intelligenza è come uno specchio. Se è terso e limpido riflette la realtà come realmente è. Se, invece, è deformato riflette la realtà deformandola. Ciò che deforma lo specchio della nostra intelligenza sono i pregiudizi, le precomprensioni, ma anche le passioni, la cultura dominante, la moda, il contesto sociale. Chi vuole giungere veramente alla verità dovrebbe prima di tutto esaminare sé stesso per vedere se nella sua ragione esistono elementi che condizionano la sua ricerca e la guidano in una particolare direzione.
    È un lavoro che pochi fanno. Il fatto di avere la ragione per ragionare non sempre garantisce che si ragioni bene. Per questo il singolo diffida in una certa misura di sé stesso e si confronta con chi può aiutarlo nella ricerca della verità. E per il cristiano un grande aiuto viene proprio dal Magistero, al quale è assicurato l’assistenza dello Spirito, che è Spirito di sapienza, scienza, intelletto, consiglio.

    D. A.

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  • 22. erica  |  1 dicembre 2006 alle 20:52

    Chiudo gli occhi e provo ad immaginare il mio corpo adagiato su un letto di ospedale,sepolto tra le lenzuola candide. Vedo una s stanza in penombra, vuota, fatta eccezione per un mostro metallico che produce un sommesso ronzio: è il mio polmone artificiale, senza questo non potrei respirare regolarmente diventerei cianotica in poco tempo e la mia vita giungerebbe alla fine.
    Vedo il mio corpo sepolto tra le lenzuola candide, un corpo che non mi appartiene più, inerme, gracile, insensibile.
    Vedo i miei occhi vagare nella prigione dalle mura chiare alla ricerca di una risposta agli interrogativi che mi opprimono. Li vedo scavare nel passato, illuminarsi al ricordo di ciò che ero, di ciò che facevo: svegliarmi al mattino, lavarmi il viso con l’acqua gelida, fare colazione con il pane e il miele, guidare nel traffico cittadino, camminare per le strade bigie…..e poi cantare, ridere correre, abbracciare chi mi amava e ancora lo fa, incondizionatamente. Vedo gli amici che vengono a farmi visita: si siedono e parlano, parlano in continuazione per non lasciare spazio ad un silenzio troppo denso. Crudele.
    E intuisco le lacrime che si affollano dietro quegli sguardi da bambini…perché di fronte all’avanzare della signora morte siamo tutti neonati, piccoli e indifesi. I principianti della vita.
    Vedo tutto ciò e invoco la fine.
    So che sarei capace di ricominciare a pregare qel Dio che, sono certa, non è nell’altro dei cieli ma qui su questa terra. Gli chiederei dimettere un punto ad una vita che non è più tale. Farei di tutto per sfuggire ad una condanna che mi terrorizza: consumare i miei giorni struggendomi al ricordo del sapore della vita. Vederli andare via tra un rimorso e un rimpianto.
    Io, perdutamente innamorata di questa effimera esistenza terrena, vorrei morire.
    Negli ultimi mesi i mezzi di comunicazione ci hanno invitato ad una riflessione sul senso dell’esistenza umana, sul suo valore e sul sottile limite tra la vita e la morte.
    L’eutanasia è diventata il tema di dibattiti tra politici, scienziati, uomini di cultura.
    Il nome di questa pratica medica deriva dal greco: “eu-thanathos”ovvero buona morte.
    Uno dei maggiori tabù della società moderna ha una definizione quanto mai ossimorica e beffarda:come può essere dolce un tuffo nell’oblio?
    Come può essere piacevole chiudere gli occhi senza sapere dove e se li riapriremo?
    Eppure, in alcuni casi, la fine di tutto è l’unico, ardente desiderio.
    Ci sono persone affette da malattie degenerative terminali: uomini e donne consapevoli di non poter fare assolutamente nulla se non aspettare lo scorrere del tempo. Pazienti condannati ad essere nutriti attraverso macchinari di ultima generazione perché la loro muscolatura volontari e d involontaria non è governabile dal sistema nervoso.
    Ci sono malattie che hanno bisogno del calore dei sani mentre altre sono un’agonia,un’indegna e terribile agonia.
    La pratica dell’eutanasia può aiutare i malati ad alleviare le sofferenze alle quali sarebbero condannati.
    Nei paesi in cui è legalmente riconosciuta ne esistono tre possibili varianti: eutanasia passiva, attiva e suicidio assistito.
    La prima prevede la sospensione dell’accanimento terapeutico. La richiesta in genere è avanzata dai parenti del paziente.
    Ho il massimo rispetto per coloro che si trovano a dover prendere decisioni così delicate ma, la mia personale opinione è che amare significa non soltanto fare la felicità dell’essere amato ma anche evitargli le sofferenze e salvaguardare la sua dignità. Perché è possibile morire in modo dignitoso senza essere trasformati in cavie umane.
    L’eutanasia attiva è la somministrazione di sostanze letali, da parte di personale medico o paramendico, che conducano rapidamente alla morte. In genere questa si effettua seguendo le direttive del testamento biologico del malato: un documento con valore legale nel quale sono esposte le volontà del soggetto.
    Esiste, poi, il cosiddetto suicidio assistito: il paziente, nel pieno delle sue facoltà psicofisiche, richiede delle sostanze letali che assume personalmente.
    La legislazione italiana non prevede nessuna tipologia della “buona morte” e non riconosce il testamento biologico. Forse perché il nostro Stato è laico solo nominalmente?
    A prescindere dalla società in cui vivo e dalla mia fede, ritengo che la pratica dell’eutanasia sia, in alcuni casi, assolutamente necessaria. Questa costituisce un atto d’amore verso sé stessi e verso una vita degna di essere definita tale. Ogni uomo è artefice del proprio destino: siamo frammenti di infinito con esperienze terrene e abbiamo il diritto di essere felici. Sempre.
    Comunque.
    Per sempre.

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  • 23. danielatuscano  |  22 dicembre 2006 alle 15:23

    Piergiorgio Welby è morto l’altro ieri, verso le 23. Un medico, col suo consenso, ha staccato la spina. Le ultime tre parole di Piergiorgio sono state una salmodia: “Grazie, grazie, grazie”. Grazie perché non vivrò più? Ma quanto ho sofferto? Ma era vita? Ma è stata eutanasia?… Ecc. ecc. ecc.

    Pensiamo, forse, alla incapacità della medicina non di evitare il dolore (per alcune malattie è purtroppo impossibile), ma di essere al servizio della vita. Manca una cultura della vita, come sosteneva Bergonzoni.

    Mio padre ieri sera ha trovato analogie fra l’agonia di Welby e quella di Giovanni Paolo II. Entrambi avevano chiesto espressamente di evitar loro sofferenze inutili. Ricordo che anche il Papa aveva rifiutato un ultimo ricovero ospedaliero. Logicamente Wojtyla non chiedeva l’eutanasia, ma solo di non praticare l’accanimento terapeutico (l’eutanasia c’entra ben poco in tutta questa vicenda, e non conta nulla che Welby la desiderasse), cui anche la Chiesa è contraria (e non dimentichiamo che il caso di Welby era analogo: accanimento terapeutico anche per lui). Poi addirittura Wojtyla scelse di mostrarsi in pubblico (come Welby) per dare il suo ultimo messaggio di speranza pur in un corpo piagato e normalmente considerato “indegno”. Welby si è sottoposto alle telecamere per mostrare la sua verità di uomo sofferente, come a dire: il calvario esiste e non è un videogame. Inutile dire che quel suo corpo muto ha parlato e ha avuto valore più di mille discorsi. Io spero solo che il pudore (parlare di rispetto per certa gentaglia che siede in Parlamento, anzi in Chiacchieramento, è eccessivo) abbia il sopravvento almeno a Natale. Su questa storia bisogna solo meditare. Nel frattempo riposa in pace, Piergiorgio.

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  • […] Mi ero ripromessa di non tornare più sulla vicenda di Piergiorgio Welby, scomparso due giorni fa https://danielatuscano.wordpress.com/2006/09/24/piergiorgio-in-nome-dellumanita/#comments. La sua lezione, affermavo, dev’essere accolta con rispetto e silenzio. Non mi è stato possibile. […]

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