LO SCHIAFFO DEL SOLDATO – Negati a Welby i funerali religiosi. Ma dov’è finita la carità?

22 dicembre 2006 at 22:00 20 commenti

Mi ero ripromessa di non tornare più sulla vicenda di Piergiorgio Welby, scomparso due giorni fa https://danielatuscano.wordpress.com/2006/09/24/piergiorgio-in-nome-dellumanita/#comments. La sua lezione, affermavo, dev’essere accolta con rispetto e silenzio. Non mi è stato possibile.

Il Vicariato di Roma gli ha negato i funerali religiosi http://www.romasette.it/modules/AMS/article.php?storyid=122. Nel comunicato stampa si legge che “il dott. Welby aveva ripetutamente chiesto l’interruzione della propria vita, e ciò è contrario alla dottrina della Chiesa”. Intervistato sull’argomento, mons. Rino Fisichella, mal recitando la parte del “padre” rammaricato (in effetti la sua faccia, di pietra, è sempre tristemente uguale), ha confermato che ahilui, questa deplorevole faccenda non poteva che concludersi così, il “dott. Welby” si era messo contro la cultura della vita, ma stessimo tranquilli, la Chiesa non farà mancare né la sua preghiera né la sua miseric…

…no, mi dispiace, ma non riesco a usare questa parola. Mi suona bestemmia, in questi casi. E chi scrive è, o cerca di essere, cattolica. Ha denunciato più volte le pericolose ambiguità dei sostenitori dell’eutanasia. Ma Piergiorgio ora, che già mi era parso simile a Giovanni Paolo II nei suoi ultimi momenti, lo vedo sempre più accomunato al Condannato per eccellenza, a quel Cristo cui il soldato sferrò uno schiaffo: “Rispondi così al sommo sacerdote?” (Gv 18, 22) .

I nostri sommi sacerdoti, in nome della Vita, negano un alito di concreta vita all’anima di Piergiorgio. Eppure, Piergiorgio, so che dall’alto ci scruti e sai che anche noi, oggi, noi cattolici intendo, non siamo tutti così. Ci vergogniamo di una Chiesa che fino a poco tempo fa (ma evidentemente, in questi tempi di rinnovata Controriforma, si sta tornando ai “bei tempi andati”) negava ai suicidi la sepoltura in terra consacrata. Ma non ha mai disdegnato solenni esequie a un mafioso. Non accetta la tua salma nel suo sacro tempio, a te che rischiavi di morire soffocato, a te che soffrivi atrocemente dall’età di 18 anni, a te che, forse, volevi non tanto l’eutanasia quanto evitare un vano, sadico accanimento terapeutico. Il dolore in sé non è un valore, e tu lo sapevi bene. Sei morto per testimoniare la vita degna, non per fornire alibi a chi vorrebbe sbarazzarsi di un corpo deforme e negato.

E mentre il Papa torna a tuonare sulle coppie di fatto, non vorrei davvero, specie in questo periodo, vergognarmi di essere cattolica. Ma non è questione di religione, è questione di… quella parola che non riesco a scrivere ora. A Natale, secondo lo stanco e ipocrita vaniloquio, siamo tutti più buoni. Se lo siamo sempre, però, altrimenti non ci salva nemmeno Gesù Bambino. E loro, loro non lo sono. Perdonaci, Piergiorgio, ora puoi farlo.

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 TI VOGLIO BENE

Daniela Tuscano

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20 commenti Add your own

  • 1. alessandro  |  22 dicembre 2006 alle 22:29

    ma la chiesa cos’è? la chiesa siamo noi.
    quella “chiesa” che nega, che blatera, che brucia, che si affaccia alla finestra con Pinochet e con Castro, che sdogana i mafiosi, che condanna gli omosessuali, che tradisce Cristo mille volte e che, come dice Dostoevskij, sarebbe pronto a rimetterlo in Croce, è solo una piccola parte della chiesa.
    Buon Natale e Buona Chanuccha.
    Ale

    Rispondi
  • 2. danielatuscano  |  22 dicembre 2006 alle 23:00

    D’accordo, ma so purtroppo come (dis)funziona la cosiddetta
    informazione, e in tv si vede solo la gerarchia; pertanto, come cattolica, vengo necessariamente identificata con la stessa. Che andrebbe anche bene, se non compisse atti di cui vergognarsi perché compiuti in nome di Dio. Quindi, come si dice, oltre a essere cornuta rimango pure mazziata. Mi duole usare questo linguaggio, ma la situazione è così greve da potermi concedere qualche… licenza. 😡

    Rispondi
  • 3. alessandro  |  22 dicembre 2006 alle 23:30

    Quello che si vede non è l’essenziale. L’essenziale è il Cristo
    Crocefisso e Risorto. Conoscerlo è conoscere i suoi benefici
    (Melantone) altrimenti dovremmo perdere la fede.
    ciao

    ps: sarà per questo motivo che a pinochet si danno esequie religiose (e non a Welby?)
    vedi link :

    Rispondi
  • 4. Massimo Trapani  |  23 dicembre 2006 alle 7:49

    per quanto riguarda le mancate esequie religiose a Piergiorgio dobbiamo ringraziare, si fa’ per dire, la mancanza di Pietas da parte del Vicariato di Roma e lo zampino Mefistofelico di Ruini.
    Infatti il prete che ha accompagnato Piegiorgio in questi lunghi anni aveva gia’ predisposto il tutto per la funzione religiosa.
    Una piccola, grande, vergogna in piu’ di cui l’istituzione Chiesa si rende complice.
    Anche se penso che nella loro enorme ipocrisia, l’aut aut sia dovuto al frastuono dato alla notizia, alle tante pagine scritte a volte a vanvera sui giornali e ai talk show televisivi.
    Non e’ la prima volta che mi succede infatti di assistere, purtroppo, alla funzione religiosa di un’amico che ha deciso di tagliare i ponti con la vita da solo. L’ultima qualche settimana prima della festa dei morti.
    La persona in questione si schianto’ con una macchina da un dirupo per una pena d’amore grandissima.
    E’ inutile ma ancora nel 2006 la concezione del poco se ne parla piccolo peccato, tanto se ne parla peccato maggiore e’ sempre presente.
    Resto in silenzio e in quanto Cattolico sono allibito da tutto cio’!

    Rispondi
  • 5. danielatuscano  |  23 dicembre 2006 alle 10:17

    Ma io dalla Chiesa non me ne vado, questa soddisfazione di celebrarsi da soli in un club di privilegiati non gliela do. Anche perché non ho alcun diritto di inventarmi una religione fai-da-te. La Chiesa esiste perché l’ha voluta Cristo. Purtroppo i suoi rappresentanti, a volte, se ne dimenticano e pensano tutto dipenda da loro.

    Qui pubblico la risposta che ho dato, sul sito di Welby, a un altro utente. Ci sarà qualche prevedibile ripetizione: lì scrivevo ex novo.

    …mi trovo d’accordo nel rifiutare ogni tentativo di strumentalizzazione del caso Welby per cercare di introdurre l’eutanasia in Italia. E non perché me lo impone il Magistero: perché vi si ribella la mia umanità! Non vado contro la volontà del singolo, massimo rispetto per lui in quei momenti (io stessa non so come affronterò l’ultimo passo, potrei desiderare come Piergiorgio la stessa cosa, potrei voler continuare a vivere, come Fogar). Nessuna legge potrà mai regolare nulla in questi casi estremi.

    Trovo io pure molto pericolosa, e non priva di serie ambiguità etiche, questa battaglia pro-eutanasia tacendo completamente, per esempio, sulla cura palliativa, perché considerata dispendiosa e inutile. Già. Quando il “prodotto” uomo non serve più, tanto vale sbarazzarsene. Non sembra anche più pietoso? “Vite indegne di essere vissute”, lo diceva anche Hitler, sotto il quale l’eutanasia veniva ampiamente praticata.

    Non firmerò dunque alcuna petizione pro-eutanasia, e non per dolorismo. Giovanni Paolo II in persona rifiutò l’accanimento terapeutico (e a me, contrariamente all’utente di cui sopra, proprio di questo sembrava si trattasse riguardo a Welby). L’accanimento terapeutico è un’inutile crudeltà contro cui anche la Chiesa si oppone.

    Ma detto questo, le parole del Vicariato di Roma mi hanno ferita atrocemente, e sono a parer mio un ultimo schiaffo a Welby. La Chiesa non solo non si è sottratta al can can mediatico che è sorto, ma in qualche caso l’ha alimentato con la sua intransigenza e la sua mancanza di carità.

    Ho sempre trovato scandaloso non il suicidio – che non è uno scandalo, ma un atto terribile, per il credente anche un gravissimo peccato, e giustamente -, ma credo che il motivo per cui la Chiesa abbia rivisto la sua (questa sì) scandalosissima decisione di rifiutare la benedizione della salma del suicida sia stata motivata dalla considerazione delle attenuanti psicologiche ecc. Ho quindi assistito alle esequie religiose di alcuni suicidi e NON mi sono scandalizzata, né ho MAI pensato che la Chiesa avesse “chiuso un occhio” sulla sua dottrina.

    Anche perché avrei dovuto pensarlo molte altre volte. Quando, p. es., leggo sul Catechismo universale che l’aborto è sempre e comunque inaccettabile, la pena di morte invece no (e non importa nulla che si parli di “rarissimi casi”, resta il fatto che è accettata…); quando, e non è accaduto una volta sola, si nega la comunione a una donna che ha preso la pillola, ma non a chi fa soldi coi soldi (cfr. Alex Zanotelli), né tantomeno i devoti suffragi a mafiosi notori, che forse, in vita (nella loro santa vita) hanno guidato le processioni al patrono del paese. Non dimentichiamo che Provenzano possedeva sette Bibbie nel suo rifugio, e si serviva dei passi delle stesse per comunicare i suoi omicidi.

    Avrei dovuto pensarlo durante i funerali (religiosi) di Pinochet…

    E dovrebbe quindi scandalizzarmi una preghiera pubblica per Welby? Vedete voi.

    L’eutanasia e il materialismo non si combattono con questi mezzi miscredenti. Io personalmente non credo che Dio, adesso, abbia rifiutato le sue porte a Piergiorgio, anche se aveva desiderato di morire. Nutro qualche dubbio in più a proposito del devotissimo Pinochet sopra ricordato.

    P.S.: Segnalo ancora un’intervista concessami da una ragazza tempo fa… https://danielatuscano.wordpress.com/2006/02/13/la-vita-e-per-tutti-maria-luisa-perche-dico-no-alleutanasia/

    Rispondi
  • 6. albertOne  |  23 dicembre 2006 alle 11:54

    Ho seguito anch’io con molta tristezza la vicenda di Welby e di sua moglie, che tanta parte ha avuto in questa vicenda e che ho molto ammirato.
    Che dire di questa Chiesa che… fa pietosamente acqua da tutte le parti.
    Mi sembra una grande nave che sta affondando. Mi spiace dirlo, ma mi sento sempre più lontano dalle gerarchie ecclesiastiche, compreso il Papa, incapaci di porsi secondo uno spirito/atteggiamento davvero cristiani.
    L’impastoiamento poi con la politica è devastante, e parlo ben anche dell’Unione, così pavida… e spesso ipocrita.
    Vediamo se fra un po’ non ci diranno che pagare più tasse è un
    fioretto dovuto alla Madonna…

    Davvero ‘sta Chiesa fa acqua… acqua… acqua,,, e non benedetta, di
    salvezza, ma acqua che un po’ alla volta affoga… anche i
    sentimenti più belli.

    Con amarezza ma anche con bel sorriso, auguro a tutte/i un Buon
    Natale e un 2007 meno contradditorio.

    AlbertOne

    Rispondi
  • 7. giuseppe  |  23 dicembre 2006 alle 10:58

    tutto giusto quel che si dice sulla strumentalizzazione .
    Resta il fatto che un omicida viene considerato meno peccatore di un suicida, e questo mi suona molto strano.
    Resta il fatto che il boss della banda della magliana e’ sepolto in vaticano.
    Resta il fatto che la carita’ cristiana non si dovrebbe negare a nessuno.

    Un piccolo appunto: non ci sono (ancora) indagati per omicidio, anche perche’ la stessa magistratura non e’ sicura del fatto che si sia trattato di eutanasia ma possibilmente di interruzione di un trattamento medico improprio… (di questo se ne puo’ discutere, chiaramente)

    Beppe

    Rispondi
  • 8. vittorio  |  23 dicembre 2006 alle 18:06

    “Noi Siamo Chiesa”

    Via N. Benino 3 00122 Roma

    Via Bagutta 12 20121 Milano

    tel.+39-022664753

    email vi.bel@iol.it

    http://www.we-are-church.org/it/

    Comunicato stampa

    Una decisione solo politica ed antievangelica quella del Card.Ruini di negare le esequie religiose a Welby

    Il portavoce di “Noi Siamo Chiesa” Vittorio Bellavite ha rilasciato la seguente dichiarazione :

    “E’ prassi ormai costante e diffusa nella Chiesa cattolica quella di celebrare i funerali religiosi a tutti, ivi compresi i suicidi, i mafiosi ed i capimafia, i non credenti qualora la famiglia lo richieda e personaggi come Pinochet.

    La misericordia di Dio e del Vangelo di Gesù non ha confini, la preghiera dei parenti, degli amici e della Chiesa tutta ha sempre una funzione di grazia.

    La decisione del Card. Ruini di non permettere i funerali religiosi di Piergiorgio Welby mi sembra solo politica, utile per mandare, in modo rozzo, messaggi sulla particolare competenza della Chiesa di giudicare e di esprimersi su un fatto e su tematiche che hanno coinvolto molto l’opinione pubblica, anche se in modo eccessivamente mediatico e, in parte, strumentalizzato.

    Welby è stato giudicato dal Card. Ruini “peccatore manifesto” in base al diritto canonico (canone 1184) ma dal punto di vista teologico e morale sono tanti i cristiani, di qualsiasi ruolo ecclesiale, sociale o culturale, che ritengono che il comportamento di Welby, nella sua concreta situazione, non sia stato contrario all’etica cristiana ed al messaggio evangelico fondato sulla libertà di coscienza e sull’amore.

    Il Card. Ruini si interroghi se si è comportato secondo carità cristiana, secondo i suoi doveri di pastore e spieghi alla famiglia di Welby il perchè del suo comportamento.”

    Roma, 23 dicembre 2006

    Rispondi
  • 9. danielatuscano  |  23 dicembre 2006 alle 20:16

    Mi hanno mandato questo commento, pubblicato su “Avvenire” qualche giorno fa. Ve lo sottopongo.

    “Che cosa veramente “vuole” Piergiorgio Welby? Intendo: cosa vuole lui, proprio lui, Welby (e non l’associazione che egli presiede o la parte politica che lo annovera tra i suoi membri)? Vuole l’eutanasia? Vuole rinunciare alle terapie di sostegno vitale cui è sottoposto? Vuole la fine di un inutile accanimento terapeutico? Vuole una “robusta” terapia del dolore? Vuole richiamare l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica sul valore dell’autodeterminazione dei malati, anche in casi tragici ed estremi? Vuole trasformare il suo tragico caso “privato” in un caso “pubblico”, per orientare, come è lecito che faccia un leader politico, la politica sanitaria del paese?
    Potrei continuare a formulare ipotesi su ipotesi (tutte peraltro ben fondate), ma sarebbe inutilmente defatigante: è evidente che Welby vuole tutto o può voler tutto ciò che si è detto. Il problema è che tutto ciò che egli vuole (o può volere) diventa, nel gioco mediatico che ci assedia da tutte le parti, costitutivamente sfuggente, ambiguo, polisenso e si presta ad essere sforzato e deformato in mille modi.
    Possiamo farci qualcosa? Certo: possiamo e dobbiamo esigere da parte di tutti, e in primo luogo da noi stessi, un estremo rigore concettuale e lessicale. E’ difficilissimo, ma dobbiamo provarci ad ogni costo, se non vogliamo che il “caso Welby” divenga, come tante altre volte è successo, il pretesto per alterazioni irreversibili non solo del nostro sistema giuridico, ma anche e soprattutto della comune sensibilità etico-sociale del nostro paese.
    Prendiamo come esempio un tema cruciale, quello del rifiuto delle terapie. Non possiamo confonderlo con la richiesta di eutanasia, cioè di una “buona morte”, che da nessuna parte nel nostro ordinamento giuridico ottiene un qualsiasi riconoscimento. Quello del rifiuto delle cure è un diritto personale, di rango addirittura costituzionale, la cui violazione da parte di un medico (o di chicchessia) potrebbe addirittura far scattare una denuncia penale. Per un giurista questo è un dato incontrovertibile, che può essere sicuramente applicato al caso Welby: non c’è dubbio che, mentre una sua domanda di eutanasia non potrebbe che essere respinta, sarebbe invece doveroso rendere ossequio alla sua volontà, ove egli, dopo aver dato prova della sua piena capacità di intendere e di voler, esigesse la sospensione di una qualsiasi terapia gli venisse applicata, anche salvavita (ma che cosa “veramente” voglia Welby – se cioè voglia l’eutanasia o la sospensione delle cure – purtroppo non è affatto chiaro). Si può aggiungere che, così come Welby ha il pieno diritto di rifiutare una terapia, il medico che lo ha in cura ha l’assoluto dovere di praticargli le terapie compassionevoli, le terapie del dolore che meglio si adattano alla sua circostanza, anche nel caso in cui i dolori che lo possano assalire siano la conseguenza del suo rifiuto di terapie. Il caso, insomma, potrebbe giuridicamente essere ritenuto molto semplice.
    Perché allora questa semplicità non viene riconosciuta? Il punto è che ciò che è semplice per il diritto (che in questi casi ragiona in modo freddo ed elementare, utilizzando il codice lecito/illecito) non lo è più, quando ci poniamo sul piano caldo e intricato dell’esperienza umana integrale, che arriva subito al vertice della complessità adottando (e non potrebbe fare altrimenti) il codice bene/male, un codice che solo gli ingenui pensano si possa ridurre nei termini (peraltro suggestivi) dell’autodeterminazione personale, delle preferenze soggettive e perfino della “dignità della vita” (espressione sfuggente e divenuta ormai polisensa). Ma proprio per questo gli appelli che vediamo continuamente rivolti al legislatore perché intervenga, con quello che è il suo unico, possibile strumento, e cioè la legge, per incrinare con riferimento a specifici casi concreti il principio ippocratico della difesa della vita, appaiono poco meditati: la legge, strumento inevitabilmente freddo, rigido, burocratico, formale, è lo strumento peggiore da utilizzare quando sono in gioco questioni estreme e di frontiera, come quelle che investono vita e morte, e che chiedono invece intelligenza appassionata e sottile, duttilità, empatia, partecipazione solidale.
    La medicina ha già la sua legge, alla quale i medici devono attenersi: il giuramento di Ippocrate, che proibisce l’eutanasia, ce ne presenta una delle più suggestive formulazioni. Al diritto dello Stato dobbiamo chiedere una cosa sola, che vincoli i medici al loro giuramento, che è giuramento per la vita, che li vincoli a questa fedeltà, soprattutto oggi, in un mondo in cui si diffonde un sottile e terribile gusto per la morte. A Welby qualcuno è arrivato a formulare un vero e proprio anti-augurio, terribile perché obiettivamente necrofilo: quello di non arrivare a vedere il giorno di Natale. A Welby, come ad ogni essere umano, bisogna invece fare auguri di vita: perché questa e solo questa è la cifra reale e riassuntiva della nostra comune esperienza.”

    Rispondi
  • 10. donatella  |  23 dicembre 2006 alle 20:19

    Ci sono attimi che non puoi non pensare…riflettere ..
    il pianto ti sopraggiunge, l’ ansia ti stringe la gola…

    Non resci a pensare senza…. soffrire e urlare!

    Questa felicità tanto descritta, dipinta da tutti gli artisti più folli…
    …..Ma come un viaggio io la Immagino…e nel pensiero io la porto! Donatella59

    Rispondi
  • 11. Riccardo  |  23 dicembre 2006 alle 20:19

    Giusto l’incontro con Pinochet, perchè non è facendo muro che la Chiesa può cambiare le cose, ma parlando (senza, ovviamente, cedendo al buonismo o nell’accettare certi barbari crimini)

    Giusto anche il funerale a Pinochet e a chiunque lo chieda, perchè solo Dio può dire chi ne sia meritevole e chi no. Tantissima gente prende la cresima solo per sposarsi, altrettanti si sposano in chiesa e poi divorziano come niente fosse. Ma chi siamo noi per vedere cosa c’è nell’animo dell’uomo?

    Welby dimostra come la Chiesa (intesa come Curia Romana) sia interessata soltanto alla “teologia della morale”, quella secondo il quale i peccati iniziano “dalla cinta in giù”. “La vita non si tocca” hanno detto in tanti, però nessuno si è mosso contro la legge per l’autodifesa promulgata dalla Lega, secondo la quale si può sparare per difendere la propria “roba”, e non solo le persone.

    Welby non ha neppure subito “l’eutanasia”, perchè non gli è stato iniettato nessun veleno, ma soltanto staccato un respiratore mentre era sotto l’effetto di un anestetizzante. E’ giusto che un uomo sopravviva in quello stato grazie ad una macchina? Lì sì che alla natura (e quindi a Dio) non è stato dato modo di fare il suo corso. E che ne so io se Welby durante la malattia ha pregato oppure no? Chi sono io per negargli l’ultimo saluto religioso, visto che Gesù ha accolto in Cielo un ladrone sul punto di morte? E chi sono quelli della Curia Romana per fare tutto questo?

    Credo nella Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Ma queste ultimi 3 aggettivi non so se si addicono a tutta la Chiesa di oggi

    Rispondi
  • 12. Guerrazzi Rambo  |  24 dicembre 2006 alle 18:00

    ma arrivare finalmente a capire che le religioni sono solo un mero strumento di auto-commiseramento per la nostra incpmprensione dell’universo, e che sono utilizzate come strumento di potere no?

    E dire che ci vuole tanto poco…

    Rispondi
  • 13. marianin  |  31 dicembre 2006 alle 2:47

    Fortunatamente siete in minoranza, pur voi credendo nell’ecumenismo, mi dispiace, i siti come questo che sto visitando sono, tutti, ugualmente, gestiti da persone sciocche. Perchè non provate riflettere con il vostro cervello, scusate il termine offensivo, intendevo “cervello”, credete in una religione sionista ma, soprattutto, frequentate i funerali di Mario Merola, grazie a voi, esiste tutto ciò che c’è: è ora di rendersene conto e non riprodursi più: proibire la riproduzione ai cattolici, è un atto di coraggio, ma proibire la riproduzione ai simpatizzanti ebraici, è un atto di civilità!
    Buon anno a voi, ma soprattutto buona vita a noi, sperando di non trovarvi più nel web, oppure, buon anno a noi e buona vita a noi sperando di non tovarci più nel web…
    Non cambia nulla tra pochi anni, o tra un minuto, non ci saremo più…, non credere alla vita eterna Daniela!

    Rispondi
  • 14. danielatuscano  |  31 dicembre 2006 alle 15:41

    Potrei cancellare il messaggio qui sopra ma, da persona sciocca quale sono, non lo farò. E’ giusto che tutti, visitando il mio come altri siti, si rendano conto di chi mette la firma su parole quali “religione sionista”, proibire la riproduzione ai cattolici e agli ebrei come “atto di civiltà” oltre che insulti personali (e cosa c’entrerebbero, poi, i funerali di Mario Merola????????).

    Lo lascio come esempio, si capisce; per i motivi suesposti. In futuro non intendo concedere ulteriore spazio ad alcunché di simile perché non è certo ingiusta discriminazione rifiutare messaggi razzisti, intolleranti o semplicemente privi di educazione e di cultura.

    Poi si può ringraziare Dio (o chi, in coscienza, si senta più idoneo) se il web è grande e ognuno può sfogare le proprie frustrazioni in tanti altri siti, senza dubbio più consoni alla loro sensibilità.

    Rispondi
  • 15. alessandro  |  1 gennaio 2007 alle 2:27

    La profezia di Welby
    Enzo Mazzi

    La critica verso il rifiuto opposto a Welby dalle gerarchie
    ecclesiastiche fino a negargli i funerali religiosi sta montando
    anche nella Chiesa cattolica, anzi direi proprio in questa. È stato
    sfigurato di fronte al mondo il volto della «sposa di Cristo», madre
    accogliente. E Dio stesso ha subito una penosa violenza direi quasi
    blasfema. È stato ingabbiato dall’intransigenza del Vicariato di
    Roma in una immagine quanto meno dimezzata e quindi falsata, come il
    Dio dell’onnipotenza, unico padrone della vita e della morte,
    giudice inflessibile banditore di una legge impietosa ed escludente.
    Mentre è stato oscurato il Dio che nasce in una stalla, soffre e
    muore nella maledizione, espulso dalla città, con le braccia aperte
    quasi in un abbraccio universale di tutti i maledetti. Hanno ragione
    Padellaro e Colombo a chiamare in causa l’assenza di Cristo, del
    Cristo della croce, se ho ben capito il senso profondo dei loro
    editoriali del 27 dicembre.

    La vicenda di Welby è profetica: dice l’impotenza delle cattedre
    religiose di fronte ai drammi delle persone in carne ed ossa. Ma
    parla anche a tutti noi, incapaci finora di costruire una convivenza
    sociale accogliente verso il dramma di Piergiorgio, che è il dramma
    condiviso da molti nelle stesse sue condizioni. Dice che è distorto
    il nostro rapporto con la natura, con la vita e con Dio stesso. La
    profezia di Welby ha fatto affiorare una questione fondamentale
    anche per la nostra epoca, sepolta nel profondo, annegata nelle
    parti oscure della nostra coscienza. Un po’ come è accaduto duemila
    anni fa con la profezia di Gesù, quando morente emette il grido
    pieno di angoscia e di mistero, soffocato dagli spasmi della
    crocifissione: «Dio mio perché mi hai abbandonato». Quel grido è
    risuonato nella storia facendo ogni volta riemergere il bisogno e la
    ricerca di un Dio «diverso» da tutte le codificazioni dogmatiche
    isterilite e divenute inutili anzi dannose, violente e distruttive.
    Forse la riflessione su un Dio «altro» va rivolta anche alla ricerca
    di un concetto «altro» di natura. Abbiamo bisogno di guardare la
    natura con occhi nuovi. Ci può esser di aiuto avvicinare
    l’esperienza di Pierre Teilard de Chardin, gesuita, teologo con
    propensione al misticismo, grande scienziato, geologo e
    paleontologo. Gli fu proibito dall’autorità ecclesiastica di
    pubblicare gli scritti teologici e dopo la morte furono condannate
    le opere pubblicate postume. La sua intuizione di fondo sembra
    essere il «muoversi verso», cioè la trasformazione finalizzata.
    Attraverso la sua indagine di rigore scientifico sulla evoluzione
    biologica giunge alla convinzione che la Biosfera tende alla
    coscienza, cioè si evolve verso la Noosfera, parola difficile che
    significa in sostanza «mondo della coscienza». Ma ciò avviene non
    perché già all’inizio c’è un ordine precostituito. La natura non è
    data una volta per tutte. L’evoluzione non segue una linea ben
    individuabile, si muove anche a tentoni, a strappi e a impennate
    inspiegabili. L’ordine è nel futuro, non nel passato: va costruito.
    L’Universo si dipana nella libertà e nell’autonomia nutrite di
    relazioni. E sono precisamente questi valori di trasformazione che
    costituiscono il compito umano di «costruire la Terra – costruire la
    natura». Dio è lì, nella trasformazione, non nella fissità. Nello
    stesso periodo, anni 50, sosteneva cose simili Ernst Block, marxista
    antidogmatico ed eretico, autore del Principio-speranza: «Il nerbo
    del retto concetto della storia è e rimane il novum. Quando si è
    sperimentata una volta la realtà come storia non è più possibile il
    ritorno alla fede astorica di ciò che sussiste e rimane in eterno».

    E siamo al dunque finale. Oltre a guarire la percezione della
    natura, abbiamo bisogno contestualmente di guarire anche la nostra
    malata percezione del rapporto fra vita e morte. Noi percepiamo la
    morte come separata dalla vita, anzi contrapposta alla vita. In
    particolare il cristianesimo ci ha abituati fin da piccoli a
    considerare la morte come punizione per il peccato: «a causa di un
    solo uomo (Adamo) il peccato è entrato nel mondo e col peccato la
    morte e la morte si è estesa a tutti perché tutti hanno peccato»
    (Lettera di Paolo ai Romani). La Chiesa indefettibile assicura la
    vittoria definitiva sul nemico assoluto che sarebbe la morte, dando
    la vita eterna a chi si affida al suo abbraccio. Con la
    secolarizzazione, la funzione di esorcizzare la morte è assolta da
    altre grandi costruzioni sociali fra cui non ultima una certa
    concezione assolutista della scienza medica. E non è forse una tale
    assolutizzazione della vita e una tale separazione fra vita e morte
    che rende tanto aggressivo l’«ordine» mondiale in cui viviamo?
    Mentre portiamo avanti ogni giorno l’impegno politico e sociale per
    la giustizia e la pace, contro la violenza e la guerra, al tempo
    stesso il nostro pacifismo ci deve portare oltre la dimensione socio-
    politica della lotta. E questo vale anche per l’impegno
    intraecclesiale che non può limitarsi a rincorrere con la critica
    scelte inopportune o errate delle gerarchie. Bisogna andare
    finalmente alle radici. Welby ci sia di esempio: ha fatto una scelta
    di grande valore simbolico e profetico, ha desacralizzato un
    concetto ossificato e ormai inadeguato di natura, del vivere e del
    morire, e ha riaperto la ricerca sul senso della esistenza, sulla
    natura e su Dio.

    Pubblicato il: 31.12.06
    sull’Unità
    giornale fondato da Antonio gramsci
    ucciso in un carcere fascista

    Rispondi
  • 16. danielatuscano  |  1 gennaio 2007 alle 11:25

    Fantastico don Enzo. Ma naturale che ciò accadesse: dell’ombra di Piergiorgio non si sbarazzeranno tanto facilmente.

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  • 17. angelo  |  22 gennaio 2007 alle 23:55

    Don Andrea Gallo,Giovanni Franzoni, don Paolo Farinella, don Aldo Antonelli, C’è anche un’altra Chiesa, oltre a quella di Ratzinger, MicroMega 1-07
    C’è una Chiesa che afferma il diritto all’autodeterminazi one degli individui. Una Chiesa che non dimentica che la ‘vita’, se è tortura, non va vissuta a qualunque costo. Una Chiesa laica, consapevole che non si può imporre ad altri la propria fede. Ecco le testimonianze di quattro preti.
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    LA CROCIATA DI UNA CHIESA MATERIALISTA
    DON ANDREA GALLO

    Non è la tutela dei diritti individuali uno dei cardini del messaggio evangelico?

    La nozione di vita deve essere alta, ricca, personale più di quanto non sia una nozione di organismo, oggetto della scienza.

    Dov’è l’amore? Dov’è il rispetto del primato della coscienza personale? Dov’è la pietà? C’è un vuoto di amore in questa crociata «cattolica» e avanza un pesante fondamentalismo.

    Esistono regole come la libertà di cura e il divieto di accanimento terapeutico anche nel catechismo.Mi sembra che si voglia respingere un principio sancito dalla legge, come la libertà di non accettare cure.Welby era come un malato di tumore con metastasi: sa che l’operazione non servirà a nulla e la rifiuta.Si può accettare un’esistenza dolorosa in un letto immobile; per Welby era un inferno.Chi ha il diritto di decidere per lui?

    Le diffuse incertezze e le numerose discussioni per la morte assistita, chiesta, invocata da una persona lucida, a mio avviso, confermano il nostro confuso concetto di vita e non aiutano la preparazione di una «buona morte».È possibile distinguere una «vita» esclusiva dell’organismo da quella che vive profondamente un individuo, consapevole di non riconoscersi nelle rimanenti e scarse possibilità biologiche? Vogliamo ridurre il concetto di «vita» ad uno straziante prolungamento biologico dell’organismo senza nessuna speranza terrena? Il rispetto dell’individuo, ci chiede di inchinarci amorevolmente alla sua coscienza.

    In particolari condizioni, non si mette in discussione il valore della vita, rispettando chi si sente in diritto di decidere di chiudere un’esistenza che va avanti esclusivamente grazie a un processo di assistenza tecnica.

    Welby supplicava di essere accompagnato dai suoi cari, dagli amici, dai medici ad una morte «umana». Così è stato.

    L’eutanasia nell’Antica Grecia indicava un’accettazione della morte come naturale compimento della vita.Il cristiano si presenta al Padre misericordioso. Sarà sempre più complicato, in assenza di una nuova legislazione, distinguere il dovere di cura dall’accanimento terapeutico.

    Quando si verificano le condizioni particolari diventate insopportabili per il paziente non è morte anticipata assecondare la libera volontà espressa dal malato di porre «fine» alla sua esistenza dimezzata.La morte riguarda ciascuno di noi nella sua profondità e spiritualità e non riguarda solamente il nostro organismo.Non lasciamoci espropriare dal materialismo della materia. Sarebbe troppo generico. Ognuno di noi ha il suo stile, la sua impronta, le sue decisioni.Riscopria mo il vero significato della nostra vita piena.

    La Scrittura pronuncia questa profonda verità: «La morte è innanzitutto cessazione della relazione con gli altri, chi non è in relazione con gli altri è già morto».Accanto al letto di Welby l’atmosfera non doveva essere quella della paura e dell’angoscia.

    Alla sua scelta di morire non possiamo rispondere con inopportune e gelide parole clericali.

    Mi sembra di raccogliere più fede nella vita, nella vita che vince la morte, nei messaggi di Welby che non nelle stanche e dogmatiche ed ideologiche negazioni di una supposta fede disabitata dai sentimenti.Continuo a diffidare dalle precisazioni, dai distinguo senza cuore.

    Avrei voluto porre le mie mani sulla testa di Welby per stringerlo dolcemente e teneramente sostenuto nella scelta con un sussurro : «A Dio». Addio, ma nella pace.

    E poter vincere la mia paura.

    Perché di fronte alla morte anche Gesù ebbe paura e non siamo migliori di Lui.

    Scoprire la profondità del vivere e la semplicità del morire: «Vita mutatur non tollitur». La «vita» è trasformata non è tolta, recita il Prefazio della messa dei Defunti.

    «Signore fa che quando arriva la morte mi trovi vivo», disse lo psicanalista Winnicott per esprimere la relazione tra la vita e la morte.Il teologo tedesco Hans Küng afferma: «La vita è per volontà di Dio anche compito dell’Uomo e perciò è rimessa alla nostra decisione responsabile» .Spero che la bioetica cattolica, e la bioetica laica, pur essendo strutturalmente diverse, non cessino di coesistere e di dialogare onestamente per il bene dell’umanità.
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    VIVERE IL PROPRIO MORIRE
    GIOVANNI FRANZONI

    La nobile e ferma richiesta di Welby perché avessero fine le torture sul suo corpo perpetrate in ossequio ad un principio ideologico che privilegia in assoluto la quantità della vita nei confronti della qualità e dell’accettazione del dono della vita da parte del soggetto, ha posto il problema dell’eutanasia ma, in realtà, a questo problema si sfugge, riducendolo alla liceità della cessazione dell’accanimento terapeutico: nozione questa, più accetta dal punto di vista formale, per coloro che si attengono alla linea della Chiesa cattolica ufficiale.

    Si sta quindi aprendo una questione infinita su quando e come la terapia per un malato terminale o anche solo gli interventi di mantenimento in vita, si configurino come accanimento terapeutico. Ignorando peraltro l’altra questione fondamentale se il soggetto in causa consideri o no, quel trattamento, come un accanimento terapeutico e una terapia soggettivamente sostenibile e bene accetta.

    È quindi importante tornare a chiarire i linguaggi e togliere dalla condizione di demonizzazione la nozione stessa di eutanasia.

    Il primo suggerimento viene dalla felice espressione di Epicuro: «Chi esorta il giovane ad una vita bella, il vecchio ad una bella morte, ha poco senno, non solo per il gradevole della vita, ma anche perché una sola è la meditazione e l’arte di ben vivere e di ben morire» (A Meneceo).

    La parola MORTE, anche ai nostri giorni, andrebbe sostituita con l’infinito sostantivato MORIRE.

    La morte infatti è una condizione statica e irreversibile. La risurrezione appartiene alla fede e si sottrae alla constatazione. La morte anche se prevedibile e prevista non c’è finché un medico legale non la constata e non la dichiara. E quando è constatata e dichiarata, salvo errore del medico, è irreversibile.

    Il morire invece si intesse fin dalla nascita col nostro crescere e col nostro stesso vivere. Non è uno sconosciuto e non giunge come un ladro. Salvo naturalmente il caso di morte violenta e incidentale: l’esplosione di una mina, messa ad arte, sul ciglio di una strada percorsa da veicoli civili è un furto.

    Il morire, invece, sotto forma di pigrizia, di rassegnazione, di torpore o di melanconia, si è spesso affacciato fra le pieghe del nostro vivere. È una vecchia conoscenza. Non è un ladro.

    Al morire abbiamo opposto resistenza, solitaria o comune, e quando ha superato il limite della sostenibilità cercando di sopraffare il vivere, abbiamo invocato la risurrezione. Talvolta una voce di amico ci ha sottratti al dolciastro sapore del morire e ci ha fatto riprendere la fatica del vivere.

    Questa distinzione è fondamentale per affrontare il problema dell’eutanasia.

    Quando i medici constatano che, nella cura di un malato, non vi è più nulla da fare per la loro scienza, abbandonano il malato agli infermieri, ai familiari e al prete. La morte non si cura.

    Molto spesso abbiamo sentito questo refrain. Ed è per questo che, appellandosi al ben noto giuramento di Ippocrate, la deontologia medica oppone alla pratica dell’eutanasia, un rifiuto etico, apparentemente nobile: «Il medico cura la vita e non può dare la morte». In realtà si tratta di una fuga.

    Perché non proporre ai medici la cura del morire, presentando il morire come una fase inevitabile e delicata del vivere? L’attivazione delle risorse, la sedazione del dolore, il conforto della presenza non appartengono forse ad una vicenda che in quella soggettività c’è sempre stata fino a che è giunta ad una fase critica e risolutiva? Non è giunto il momento di incentivare la libertà del soggetto bisognevole di cura favorendo la sua opzione o per il prolungamento quantitativo della vita biologica o per la qualità del suo morire con la coscienza vigile e l’affettività compensata?

    Una seconda fondamentale distinzione va fatta sulle motivazioni di una richiesta di suicidio assistito, o meglio, senza paura della parola, di eutanasia.

    Si nomina in genere la sofferenza, fisica o psicologica, talmente insostenibile da rendere non-vita, la vita. Ma bisogna tenere conto di un altro fattore che sta stretto nella nozione di «sofferenza»: il non riconoscersi più, sul piano etico ed esistenziale, in una certa condizione.

    Un caso classico è quello citato da sant’Agostino delle vergini cristiane (ma perché, oggi, non considerare anche le non vergini e le non cristiane?) che per evitare l’esposizione al postribolo si gettarono nel fuoco e furono considerate sante e martiri.

    Nell’area del pensiero etico e degli esempi storici, bisogna ricordare il pensiero stoico per cui, quando una persona si trova in obiettiva e inamovibile contraddizione con se stessa, ha come unica soluzione il suicidio.

    Dante (dell’ortodossia del quale nessuno ha mai dubitato) affida la custodia del Purgatorio a Catone l’Uticense che si tolse la vita per non accettare l’insopportabile comportamento politico di Cesare: «Libertà va cercando che sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta». E qui Dante pronuncia la parola fatidica «libertà» che è nel cuore del nostro discorso.

    Ho avuto occasione di dare un certo spazio alla pratica dei monaci giainisti che praticano il «digiuno estremo» (fino alla morte) quando le circostanze impediscono loro di vivere secondo la disciplina che hanno adottato (si veda La morte condivisa, pp. 43-47). Gandhi, che era giainista, adottò una volta questa decisione – era stata finalmente emanata in India una legge che concedeva il voto politico agli «intoccabili» ma in collegi separati, cosa accettata dalle organizzazioni dei paria ma insopportabile per il Mahatma – e poi la revocò quando ritenne, ma lo ritenne lui, che le circostanze fossero mutate.

    Nuovamente a regnare sovrana è la libertà che si sottomette solo quando la coscienza la orienta verso un fine – secolare o religioso – che le consente di esprimersi non in forma capricciosa ma secondo modalità condivisibili e condivise.

    Si potrebbero citare infiniti casi di persone, molto spesso medici, che conoscono bene il decorso del loro caso clinico, che, prevedendo di trovarsi prigionieri di una vita solo vegetativa, hanno lasciato nel loro testamento biologico la volontà di non essere alimentati artificialmente perché, da quel momento, non si sarebbero riconosciuti nella condizione di totale dipendenza. Sia pur priva di dolore fisico o psicologico.

    Ultima distinzione, infine, forse la più delicata, è circa la vita come dono. In particolare, come osserva Flamigni in un recente fondo sul Manifesto, per i credenti è «dono di Dio» e pertanto sacra; disporne a proprio piacimento sarebbe irriverente e blasfemo. Altro discorso per i non credenti che non facendo riferimento a Dio, potrebbero essere liberi di disporre della propria vita.

    In realtà la difficoltà c’è anche per l’etica laica. Immanuel Kant considera la vita un bene «non disponibile» dal momento che non ce la siamo dati da soli e quindi considera negativamente il suicidio.

    È necessario approfondire il concetto di «dono». La donazione, nel diritto, è definita un contratto e quindi suppone delle regole di accettazione, come in tutti i contratti. Nel pensiero filosofico come in quello religioso la donazione potrebbe essere considerata in modo diverso: quando il rapporto è gratuito e quindi il donatore non accampa diritti di dipendenza su coloro che ricevono il dono, si suppone una responsabilità connessa al ricettore del dono. Questo vale soprattutto quando il dono è la vita umana che ha come dna specifico di essere libera.

    Che il donatore sia il Creatore o che sia il popolo o i genitori da cui nasci, essi ti donano la libertà e si attendono solo che tu la eserciti con responsabilità e non con stoltezza e leggerezza.

    La maturità della coscienza resta l’arbitro di questa suprema ed esaltante sfida.
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    IL DIRITTO DI VIVERE IL DOVERE DI MORIRE
    DON PAOLO FARINELLA

    Martin Heidegger, filosofo della fenomenologia, in Essere e tempo definisce l’esistenza come possibilità di relazioni che l’individuo determina in funzione del proprio progetto di vita e la morte come «possibilità dell’impossibilità di ogni possibilità» dell’«esser-ci» (Dasein). Per il credente nel Dio di Gesù Cristo, la morte è l’atto supremo della vita, il momento celebrativo più intenso del Dasein heideggeriano che entra nel suo «permanere» definitivo chiamato eternità. L’impossibile è possibile. La morte è l’ingresso della relazione che si consuma nell’atto sponsale eterno con Dio, senza più il limite dello spazio e del tempo. Resta solo l’essere ([ex-]sistere/ Sein) che ora si identifica con il progetto che è pienezza di comunione. Per un credente desiderare la morte è aspirare alla vita e volere vivere (sulla terra) a tutti i costi può essere un atto di ateismo: «Si Christus non resurrexit vana est fides vestra» (1Corinzi 15,17). Questo è l’orizzonte entro cui, come credente prete, posso interrogarmi anche sul tema attualissimo della «eutanasia», che le cronache hanno riportato all’onore della cronaca. Lo sa bene san Paolo che desiderò ardentemente la morte vista come un bene, ma accettò di restare «terreno» per servire i Filippesi che ne avevano bisogno: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno [.] sono messo alle strette tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo [= morire] per essere con Cristo, che sarebbe assai meglio; d’altra parte è più necessario che per voi io rimanga nella carne» (Filippesi 1,21-24).

    Se come cristiano, e ancora più come prete, ragiono di «eutanasia», so già di correre il rischio di cadere nel frullatore della polemica ideologica e di essere considerato come «eretico». Il metodo di approccio corrente infatti è di schieramento preventivo in forza della propria appartenenza socio-culturale o confessionale. Provo ad uscire da questo schematismo ideologico per tentare uno sguardo secondo la mia coscienza alla luce della mia esperienza personale (Dasein) e della Parola di Dio che per me è la chiave di lettura degli avvenimenti della vita, premettendo che rappresento solo me stesso come individuo e nessun altro.

    La mia esperienza

    Ho visto soffrire mia mamma e l’ho vista morire. Ho pregato con tutta l’anima per la sua morte, nonostante nel mio inconscio la considerassi eterna già sulla terra. Io e la mia famiglia l’abbiamo amata fino allo spasimo, eppure ne abbiamo desiderato ardentemente la morte, invocandola da Dio come liberazione delle sue e nostre sofferenze. Nell’omelia della «Liturgia dell’arrivederci» (17-5-2005) dissi in chiesa: «Sotto morfina 24 su 24 ore, la mamma cominciò un lento cammino verso la morte, senza lamentarsi per le virulenze del dolore. Quando le dissi, ancora in ospedale: “Mamma, abbiamo un tumore”, mi guardò, pianse in silenzio, fece la Comunione e disse: “Facciamo quello che Dio vuole” traducendo per sé le parole di Israele ai piedi del Sinai: “Ciò che il Signore ha detto, noi faremo e ascolteremo” (Esodo 24,7) e del Padre nostro: “Sia fatta la tua volontà” (Matteo 6,10). Guardando la mamma abbiamo visto la Donna dei dolori, che ha patito tutto ciò che si poteva patire. Solo le parole del profeta Isaia (53,3.7) la sanno descrivere: “Uomo dei dolori, conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si nasconde la faccia. Maltrattato e umiliato, non aperse bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca”. Il suo viso dolcissimo fu scavato e scarnificato dalla pienezza della sofferenza: la deformazione della spina dorsale, la rottura del femore, poi il tumore alle vie biliari, le degenerazioni ai polmoni e allo stomaco e infine un’atroce infiammazione alla lingua e alla bocca che le ha impedito di nutrirsi, bere e parlare. Rimasero solo le parole silenziose degli occhi. Alla mamma Dio ha tolto anche il dono/consolazione della Comunione che era diventata il suo unico cibo quotidiano. Come Cristo, è stata spogliata, incoronata di spine, crocifissa, trafitta e martoriata: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonata? “» (Marco 15,34)

    Di fronte a lei, assisa sul trono della sofferenza, noi, la famiglia, fummo attivi ma impotenti e inutili: col desiderio volevamo schiodarla da quella croce per porre fine al dolore tracimante e incontenibile, di fatto non abbiamo potuto o saputo alleviarle le sofferenze. Unica consolazione: morì in casa attorniata dai figli.

    Natura e dignità

    Il magistero della Chiesa cattolica si appella alla «legge naturale» come espressione della «legge divina» per esigere l’intangibilità della vita dalla nascita fino al suo compimento, appunto naturale. È un argomento delicato perché a guardare dentro la «natura», nulla vi si scorge di sacrale, mentre tutto sembra dominato dalla violenza e dalla sopraffazione. Il debole soccombe, il malato è eliminato, il forte prevarica. Se dovessimo scegliere la natura come modello di comportamento umano, dovremmo improntare i codici alla legge naturale del più forte, annientando il concetto stesso di polis che è regolazione degli interessi particolari in vista dell’armonia del bene comune.

    Oggi si dice con superficialità che si è allungata la prospettiva di vita, ma forse si è prolungata solo la sofferenza delle persone. Quando si parla di «vita» si pensa all’anima e al suo opposto, il corpo. Questa distinzione tra anima e corpo è un’impostazione greca (platonico-aristote lica) che non appartiene al patrimonio culturale biblico-semita che parla della persona come un tutt’uno, un unicum visto attraverso tre categorie: tutta la persona è «basàr – carne/fragilità /caducità» (in termini moderni corporeità, come capacità di relazione con le cose create); tutta la persona è «nèfesh – [che per comodità chiamiamo] anima» come capacità di relazionarsi in senso orizzontale; tutta la persona è «ruàch – spirito» come capacità di relazionarsi in senso verticale con Dio. Corpo, anima e spirito sono tre prospettive/ dimensioni di una sola realtà: la persona umana. Se ne manca una non esiste più la persona consapevole e cosciente di essere umano vivente in relazione. La vita «umana» non può ridursi al solo atto respiratorio che con una terribile, ma efficace espressione, è detta «vita vegetativa», perché degradata al regno vivente inferiore. Nella sua globalità portante, la vita per essere tale deve essere «umana»: ciò esige la condizione previa dello status di dignità di esistenza senza la quale non può porsi la stessa «possibilità» di «ex-sistere».

    Immagine di relazione

    Genesi 1,27 afferma (traduco alla lettera dall’ebraico) : «E creò Èlhoim l’Adam [= genere umano] a sua immagine, a immagine di Èlhoim lo creò, pungente e perforata li creò». Dal punto di vista di fede, la vita per essere espressione di Dio deve essere «vita piena» con due caratteristiche: essere immagine rappresentativa della pienezza creativa di Dio che si esprime (è la seconda caratteristica) nella relazione affettiva di pungente e perforata che le traduzioni sviliscono in «maschio e femmina». La vita umana è fondamentalmente relazione di comunione in cui convergono tre orizzonti della persona: testa, cuore, pelle in una sintesi perfetta di armonia d’amore. Se l’amore è la chiave, il metodo e il fine, un credente può volere la sua morte? Per un cristiano, vita e morte sulla terra non sono valori assoluti perché la prospettiva di vita non è temporale, ma si dilata oltre la soglia della morte per entrare nell’abisso del mistero dell’eternità , tarato su un fondamento invalicabile che è l’amore o, per usare il vocabolario di Paolo, la legge dell’Agápe. «L’Agápe non avrà mai fine» (1 Corinzi 13,8), mentre la fede, la speranza, le profezie finiranno. Nella logica di Paolo, l’Agápe, il dono totale di sé senza contropartite di alcun genere, è Cristo stesso che ci ha lasciato il comandamento dell’amore come sua legge suprema e contrassegno della nostra e sua credibilità. Al di fuori di questo confine, nemmeno Dio è possibile come relazione.

    Imparare a vivere in attesa di morire

    L’Agàpe di chi crede si fa carico del dolore e della sofferenza del mondo e si pone a servizio della persona in quella condizione di vita o di non-vita in cui si trova e non in una condizione teorica e astratta dove il volto sofferente del «crocifisso» è assente. Forse è venuto il tempo d’imparare prima a vivere la vita in tutta la sua estensione di dignità e poi, quando giunge il momento, a morire con dignità, con umanità, con amore, piuttosto che costringere altri anche contro la loro volontà e la pesantezza del loro dolore a restare schiacciati da una condanna a morte sempre più dilazionata: non si prolunga né si rispetta così la vita, ma si dilata solo la morte agonizzante come una tortura senza fine. Da credente prete posso accettare la mia sofferenza come partecipazione alla passione di Cristo (Colossesi 1,24), ma non posso imporre questa mia fede a chi ad essa non fa alcun riferimento, vivendo compiutamente un altro orizzonte etico, non meno rispettabile.

    Il credente che celebra la vita si carica della croce altrui e come il cireneo sale al Calvario dalla cui vetta si proietta verso il Risorto: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1).

    Il dovere della polis

    Come credente prete cattolico non posso mai né invocare leggi positive dello Stato per imporre la mia fede, la mia etica o una visione o una scelta (oggi l’eutanasia) , uniforme per tutti. Ogni «principio», specialmente se riferito alla persona, deve essere «incarnato», in base alla regola d’oro del vangelo di non fare agli altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi (Matteo 7,12). Difendere la vita vegetale separata dalla persona reale ad ogni costo, costi quel che costi, anche contro il livello minimo di dignità è puro materialismo perché sull’altare di un principio ancora da verificare non si esita ad immolare le persone.

    In una società multiculturale, è lecito che lo Stato ponga ordine in questa materia e disponga criteri e modalità perché ogni approccio etico-religioso o agnostico-ateo abbia la possibilità di scegliere senza ulteriori traumi perché la morte è una cosa seria ed è il punto più alto della vita che deve essere circondata di affetto e preservata da speculazioni di qualsiasi genere. Vivere è un diritto e a volte morire è anche un dovere. Quando verrà il mio momento, vorrei essere consapevole di varcare la soglia della vita e abbracciare «sorella nostra morte corporale» decidendone il come nel contesto di una vita vissuta nell’attesa dell’incontro con un Dio a cui ho regalato la mia libertà e la mia stessa vita. Vorrei essere in grado di offrirgli anche la mia morte. Nella pace.
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    SE LA VITA È UN DONO
    DON ALDO ANTONELLI

    C’è un passo del Prometeo, il mito del titano incatenato da Zeus alla rupe, in cui Eschilo scrive: «Io liberai gli uomini dal freddo, insegnai a costruire case; da una cosa sola non li potei liberare: dalla Morte». Il poeta tragico greco, figlio legittimo del suo tempo, non poteva immaginare che dopo nemmeno mezzo secolo, in un paese non molto lontano dalla sua Atene un certo Gesù di Nazareth avrebbe inaugurato nel cuore degli uomini quella rivoluzione per la quale la morte perde il suo potere al punto da spingere san Paolo a lanciare la famosa sfida contro la morte: «Dov’è, o morte la tua vittoria? Dov’è, o morte il tuo pungiglione?» , fino a preconizzarne la definitiva sconfitta: «L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte!» (1 Corinzi 15,26). Fa molto pensare allora una Chiesa, nata come comunità liberata e liberante da ogni tipo di schiavitù, anche dalla schiavitù della morte, che si va ad impantanare nelle acque fluide della paura, del feticismo e del materialismo vitalistico che caratterizzano la sua dura posizione di condanna nei confronti degli strumenti che la scienza offre a che la morte perda, finalmente, la sua disumanità e la malattia la sua devastante atrocità.

    Sia chiaro: non si vuole con ciò legittimare la trasformazione della tecnica in strumento di morte né benedire l’ambiguità profonda di una scienza che diventa un delirio di onnipotenza. No!

    La complessità del problema non deve spingere nessuno ad una apertura qualunquista e superficiale, ma non deve nemmeno imprigionare le possibili scelte nella condanna più assoluta.

    Giustamente, il teologo Giannino Piana scrive, a proposito di eutanasia: «Al di là delle complesse e delicate questioni di ordine politico e giuridico, che vanno affrontate con grande prudenza in una prospettiva non puramente individualista ma attenta ai risvolti sociali e culturali delle decisioni, il nodo fondamentale che occorre sciogliere riguarda l’esistenza o meno del diritto di autodeterminazione nei confronti della morte» (Rocca, n. 21, p. 37).

    Di fronte al radicale rifiuto del diritto di autodeterminazione da parte della Chiesa ufficiale, a partire dal presupposto che la vita è un dono di cui noi non possiamo disporre, vanno emergendo, anche in ambito cattolico, ipotesi alternative (sia pure minoritarie) .

    Intanto già di fronte alla motivazione addotta contro ogni forma di eutanasia sorgono domande che qualcuno potrebbe vedere «impertinenti» ma che toccano il cuore della teologia.

    Si dice, appunto: «La vita è un dono di Dio di cui l’uomo non può pienamente disporre».

    Ma che dono è ciò che non viene pienamente e definitivamente dato?

    E che responsabilità è quella per cui si è costretti a gestire la vita per conto terzi?

    E questo Dio che concede con una mano e trattiene con l’altra cosa ha a che fare con quel Dio che «dona oltre ogni misura»? Sono forse due dei diversi?

    Si ha l’impressione, insomma, che la posizione della Chiesa ufficiale sia fondata più su preoccupazioni ideologiche che su motivazioni teologiche.

    Nel panorama della produzione teologica cattolica, poi, non mancano posizioni dall’atteggiamento «possibilista» nei confronti dell’eutanasia. Tali ipotesi, dopo tutto, si fondano su un principio comunque incontestato, anche se completamente rimosso nell’attuale dibattito. Si parte dal principio che per un cristiano la vita non è «il bene assoluto» cui tutto subordinare! Tanto è vero che il sacrificarla per altri alti valori (la giustizia, la fede, la castità eccetera) è ritenuto, dalla tradizione cristiana, un atto di eroismo e di santità. «Rebus sic stantibus», direbbero i filosofi, perché ritenere immorale il cessare di vivere quando la vita ha perso ogni connotato di relazionalità con gli altri, ogni traccia di autocoscienza, ogni altra dimensione che, andando oltre la pura vegetalità, dia dignità al vivere stesso? Personalmente ho avuto modo, in più di un’occasione, di trovare più dignitoso il gesto disperato di un suicida che non il pecoreccio vivacchiare di gente senza scrupoli.

    Il teologo tedesco Hans Küng, poi, si spinge anche oltre.

    Dall’affermazione che «il diritto alla vita non può essere scambiato per una coercizione a vivere» alla tesi che «essendo l’inizio della vita umana posto da Dio nelle mani della responsabilità dell’uomo, si può analogamente pensare che anche la fine della vita venga da Dio posta sotto tale responsabilità» .

    Il problema dell’eutanasia va correlato sì alla morte, ma questa a sua volta va connessa strettamente alla nozione di «vita» che è qualcosa di molto più alto che il semplice vegetare. L’arroccamento della Chiesa in difesa della vita a prescindere da tutto, dalle condizioni oggettive e soggettive e perfino dalle persone stesse che della vita dovrebbero essere le beneficiarie, lo trovo anche antievangelico come colui che sacrifica le persone concrete ai principî astratti e che antepone il sabato all’uomo.

    Una morale autenticamente evangelica dovrebbe stabilire delle finalità di vita piuttosto che esporre regole di condotta.

    A tal proposito Gabriel Ringlet, prete belga e vicedirettore dell’Università di Lovanio scrive: «I nostri contemporanei vogliono senso, ma rifiutano il pensiero normativo. E la Chiesa fa fatica a produrre senso senza produrre norme. Ecco la straordinaria conversione che le è chiesta».

    Mi si permetta, infine, un’ultima osservazione sul problema dell’accanimento terapeutico.

    Il catechismo della Chiesa cattolica all’articolo 2278 recita: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente se ne ha competenza e capacità». Riguardo poi all’uso degli analgesici nell’articolo 2279 si legge: «L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile».

    Posto così il problema sembra risolto.

    L’interrogativo si pone quando, considerati i grandi progressi della medicina, si tratta di distinguere il dovere di cura dall’accanimento terapeutico.

    Dove finisce l’uno e comincia l’altro?

    Qui, naturalmente, si richiede un altissimo senso di responsabilità ed una grande maturazione di coscienza.

    Il dramma cui oggi siamo costretti ad assistere è costituito dallo scollamento che si è prodotto tra la scienza e la coscienza, tra l’avanzamento delle possibilità tecniche e l’arretramento del sentire morale al punto tale di ritrovarci tra le mani strumenti che la coscienza non sa gestire.

    Le tragiche conseguenze di questo handicap morale e culturale sono sotto gli occhi di tutti.

    Abbiamo messo su (e la difendiamo a denti stretti) un’economia che miete milioni di vittime ogni giorno e in gran parte del mondo.

    Ci facciamo sostenitori di una politica che crea emarginazioni di ogni tipo.

    Nel contempo, però, ci precipitiamo sul capezzale del povero crocifisso di turno per farne motivo di crociate ideologiche di parte, strumentalizzando senza pudore il suo calvario.

    Insomma ci ritroviamo pienamente immersi in una società nella quale si inneggia alla vita mentre si programma scientificamente la morte.

    Qualche anno fa Giorgio Agamben, su uno dei più diffusi quotidiani italiani, ebbe a scrivere che il paradigma politico dell’Occidente non è più la città ma il campo di concentramento.

    Non Atene, nemmeno quella di Eschilo, ma Auschwitz.

    E non vorrei che in questa moderna Auschwitz si impiantino nuove strumentazioni che torturino le esistenze in onore della vita e del dono delle vita ne facciano, ironia della sorte, una condanna a vita.

    Mourir n’est rien; ne pas vivre est terrifiant!

    (20-1-2007)
    ————
    da Italia laica – http://www.italialaica.it/cgi-bin/news/view.pl?id=006637

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  • 18. danielatuscano  |  23 gennaio 2007 alle 11:35

    Dal blog di Piero Welby, ora curato dalla splendida moglie Mina, che consiglio di visitare http://calibano.ilcannocchiale.it/ , l’intervista da quest’ultima rilasciata a “Repubblica” (grassetti miei), che fa capire il vero motivo della durezza della Chiesa ruiniana: il materialismo che essi dicono di combattere e di cui invece, paradossalmente, sono l’incarnazione.

    Avevo scritto anch’io, un paio di mesi fa, che i veri atei, anzi i miscredenti sono i fondamentalisti https://danielatuscano.wordpress.com/2006/10/03/fondamentalisti-gli-atei-doggi/ . E do ragione a Pax Christi, secondo cui “nessuno può credere a chi si accalora per difendere il diritto alla vita degli embrioni ma non sembra interessato alla vita delle persone nate sempre e ovunque” . Per questo Ruini è in genere così detestato, fanatici a parte. Una vignetta di Bucchi, su “Repubblica”, chiosava sarcasticamente così: “Il problema della Chiesa è che non ama le persone di fatto. 😉 😦

    Detto ciò, devo ammettere che continuare a denunciare le malefatte di Ruini e dei suoi sgherri (tentazione cui ho ceduto anch’io) è un po’ inutile. Il cane che morde l’uomo non fa notizia; la farebbe il contrario. Qui siamo al primo caso. E se i media italiani – di uno Stato laico – sono così asserviti da sbattere in prima pagina, e nel tg di massimo ascolto, un esercito di celibi e imbolsite tonache nere che detta l’agenda politica, non dobbiamo lasciarci intimorire e cadere nel tranello. Pensare, come dicevo, che “la Chiesa” sia solo Ruini e il Vaticano è esattamente fare il loro gioco. La Chiesa come organo di potere, di pressione, di distanziamento dai “fedeli-pecoroni” obbligati solo a obbedire e a tacere. No. La Chiesa siamo TUTTI noi. Nella Chiesa ci sta anche Ruini, e vabbè, a me non fa piacere ma non ho il diritto di cacciar fuori nessuno. Il fatto che possieda un enorme potere materiale e mondano non conta assolutamente nulla per il Vangelo. Non sono questi i valori raccomandati da Cristo. C’è libertà di coscienza, quindi si è liberi pure di essere intolleranti, però agli intolleranti si deve dare il peso che meritano, cioè zero.

    Ruini vieta i funerali religiosi a Welby, vieta la comunione ai divorziati, vieta agli omosessuali di esistere, vieta il preservativo, vieta tutto? Ok, è il parere di un forsennato, ma è un parere. Fra i tanti. L’errore è nostro, quando cioè diamo importanza a un forsennato. Lasciamolo pure urlare. Senza eco, è come essere afasici.

    Mettiamo piuttosto in evidenza la Chiesa tutta intera, non solo la ristrettissima gerarchia amata dai clericali, e smascheriamoli con questi fatti. L’Abbé Pierre, un santo, ne è solo l’ultimo esempio. Quanto ai Ruini, Ratzinger & Co., lasciamoli per la loro strada.

    La vedova Mina replica al cardinale: non ha capito niente di mio marito e io non comprendo questa Chiesa

    “Non è vero che Piero si è ucciso; ha fatto come papa Wojtyla”

    CATERINA PASOLINI

    ROMA – «Il cardinale Ruini non l´ha proprio capito mio marito. E io questa Chiesa che celebra in pompa magna i funerali di Pinochet accusato di tanti omicidi e li nega al mio Piero che voleva solo smettere di soffrire, non la comprendo. Mi sembra distante, sempre più lontana dalle parole di Gesù. Dogmatica e poco caritatevole, se non fosse per le parole del cardinal Martini che ha capito i problemi di chi è malato e soffre, della necessità di una legge».
    Non usa mezzi termini Mina Welby, l´austrungarica come la chiamava Piero prendendola in giro per il suo carattere, quel misto di forza inflessibile e dolcezza racchiusi in un corpo minuto.

    Perché Ruini non ha capito suo marito?
    «Dice che gli ha rifiutato il funerale perché era un suicida. Non è vero, Piero non si è ucciso, ha chiesto di interrompere una cura. Ha fatto come Giovanni Paolo II che quando stava per morire ha rifiutato la respirazione artificiale e chiesto di tornare alla casa del Padre. Quello che mi domando è: perché si può rifiutare una terapia e non interromperla?».

    Il cardinale parla di decisione sofferta nel negare il funerale.
    «Spero sia vero visto che ha ferito una madre di 86 anni disperata per la morte del figlio. Certo che la chiesa comunque prima o poi chiede sempre scusa, magari 150 dopo…»

    Si aspetta delle scuse?
    «Non mi interessano perché le persone di fede le ho sempre sentite accanto: al funerale laico in piazza c´erano suore, sacerdoti, un prete è venuto a benedire la salma e in queste settimane ho ricevuto lettere, telefonate di parroci, religiosi che mi dicevano il loro affetto e la loro comprensione».

    Sacerdoti contestatori?
    «Mi ha chiamato più volte anche Don Ciotti: mi ha detto stai sicura, non ti preoccupare: Dio non la pensa mica così, lui non avrebbe negato il funerale. E sono in tanti con la tonaca o meno a pensarla come lui. A capire che Piero soffriva troppo, che la sua vita non era più tale ma solo dolore e davanti la prospettiva di morire soffocato».

    E invece?
    «Se n´è andato dormendo, con me accanto».

    Si è pentita?
    «Né rimorsi né rimpianti, non si poteva fare altro e soprattutto era quello che lui voleva. Ho fede e sono sicura che ora sta meglio dov´è. La realtà è che sono io ora a sentirmi persa e vuota senza di lui, con troppo tempo per me di cui non so che farmene se non combattere per quello che sognava. E così partecipo a convegni, seminari, sit in con i radicali, curo il blog, rispondo a chi scrive. È un modo per sentirlo ancora accanto».

    Cosa voleva Piero?
    «Una legge sul testamento biologico, sul rifiuto delle cure ma se non si muove la gente comune la vedo difficile. Sono delusa».

    Delusa da chi?
    «Anche dalla sinistra che dopo tante frasi, tante rassicurazioni in Parlamento ha votato contro l´indagine conoscitiva sull´eutanasia negli ospedali».

    Lei cosa vorrebbe?
    «Che smettessero di dire che è stato strumentalizzato, che era un malato abbandonato. Nessuno è stato più amato di lui».

    Rispondi
  • 19. joelle  |  25 gennaio 2007 alle 9:25

    Ti abbraccio,
    Joelle

    “Non è l’ umanità che deve diventare cristiana, ma il cristianesimo che deve diventare più umano.
    Non è cambiato il Vangelo, siamo noi che dobbiamo conoscerlo meglio”
    (Giovanni XXIII)

    Io, Welby e la morte
    Carlo Maria Martini
    Il Sole 24 Ore
    21 gennaio 2007

    Con la festa dell’Epifania 2007 sono entrato nel ventisettesimo anno di episcopato e sto per entrare, a Dio piacendo, anche nell’ottantesimo anno di età. Pur essendo vissuto in un periodo storico tanto travagliato (si pensi alla Seconda guerra mondiale, al Concilio e postconcilio, al terrorismo eccetera), non posso non guardare con gratitudine a tutti questi anni e a quanti mi hanno aiutato a viverli con sufficiente serenità e fiducia. Tra di essi debbo annoverare anche i medici e gli infermieri di cui, soprattutto a partire da un certo tempo, ho avuto bisogno per reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti. Di questi medici e infermieri ho sempre apprezzato la dedizione, la competenza e lo spirito di sacrificio. Mi rendo conto però,con qualche vergogna e imbarazzo, che non a tutti è stata concessa la stessa prontezza e completezza nelle cure. Mentre si parla giustamente di evitare ogni forma di “accanimento terapeutico” ,mi pare che in Italia siamo ancora non di rado al contrario, cioè a una sorta di “negligenza terapeutica ” e di “troppo lunga attesa terapeutica”. Si tratta in particolare di quei casi in cui le persone devono attendere troppo a lungo prima di avere un esame che pure sarebbe necessario o abbastanza urgente, oppure di altri casi in cui le persone non vengono accolte negli ospedali per mancanza di posto o vengono comunque trascurate. È un aspetto specifico di quella che viene talvolta definita come “malasanità” e che segnala una discriminazione nell’accesso ai servizi sanitari che per legge devono essere a disposizione di tutti allo stesso modo.
    Poiché, come ho detto sopra, infermieri e medici fanno spesso il loro dovere con grande dedizione e cortesia, si tratta perciò probabilmente di problemi di struttura e di sistemi organizzativi. Sarebbe quindi importante trovare assetti anche istituzionali, svincolati dalle sole dinamiche del mercato, che spingono la sanità a privilegiare gli interventi medici più remunerativi e non quelli più necessari per i pazienti, che consentano di accelerare le azioni terapeutiche come pure l’esecuzione degli esami necessari.
    Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto a recenti casi di cronaca che hanno attirato la nostra attenzione sulla crescente difficoltà che accompagna le decisioni da prendere al termine di una malattia grave. Il recente caso di P.G. Welby, che con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, costituite negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore automatico, senza alcuna possibilità di miglioramento, ha avuto una particolare risonanza. Questo in particolare per l’evidente intenzione di alcune parti politiche di esercitare una pressione in vista di una legge a favore dell’eutanasia. Ma situazioni simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa stessa dovrà darvi più attenta considerazione anche pastorale.
    La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz’altro il progresso medico è assai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona.
    È di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella «rinuncia … all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). Evitando l’accanimento terapeutico «non si vuole … procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2.278)assumendo così ilimiti propri della condizione umana mortale.
    Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete — anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite — di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate.
    Del resto questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni, secondo una concezione del principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla come assoluta. Anzi è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina. Forse sarebbe più corretto parlare non di «sospensione dei trattamenti» (e ancor meno di «staccare la spina»), ma di limitazione dei trattamenti. Risulterebbe così più chiaro che l’assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche. Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi una grande importanza.
    Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l’esigenza di elaborare una normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure — in quanto ritenute sproporzionate dal paziente — , dall’altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell’eutanasia. Un’impresa difficile, ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista.
    L’insistenza sull’accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un alto impatto emotivo anche perché riguardano la grande questione di come vivere in modo umano la morte) non deve però lasciare nell’ombra il primo problema che ho voluto sottolineare, anche in riferimento alla mia personale esperienza. È soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l’insieme della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna.

    Rispondi
  • 20. danielatuscano  |  1 febbraio 2007 alle 7:17

    Ti ringrazio per questa perla di carità, anch’io riporto un’importante notizia da “Quotidiano.net”:

    NON E’ STATA EUTANASIA
    Caso Welby, ‘scagionato’
    il medico che staccò la spina

    La commissione dell’ordine dei medici di Cremona ha deciso l’archiviazione del procedimento disciplinare a carico di Mario Riccio, anestesista che aiutò Welby a morire

    Cremona, 1 febbraio 2007 – L’ordine dei medici di Cremona ha deciso l’archiviazione del procedimento disciplinare a carico di Mario Riccio, l’anestesista che il 20 dicembre scorso aiutò Piergiorgio Welby a morire staccandogli il respiratore che lo teneva in vita.

    Nella lunga riunione di stanotte, i colleghi di Riccio hanno infatti stabilito che non c’è stata violazione del codice deontologico.

    Il verdetto è stato raggiunto all’unanimità nella nottata dalla commissione disciplinare alla quale Riccio era stato rinviato lo scorso 27 dicembre dopo un primo lungo colloquio con il presidente dell’Ordine, il dottor Andrea Bianchi.
    Nella lunga riunione di stanotte, i colleghi di Riccio hanno stabilito che non si è trattato di eutanasia.

    LA TURCO: ‘NO COMMENT’
    Sceglie di non commentare la notizia il ministro della Salute Livia Turco – presente al convegno «Sapere oggi per essere genitori domani» tenuto questa mattina presso l’ospedale San Gallicano. La Turco ha detto di «non avere nessun commento da fare sull’argomento, di non voler parlare di queste cose».

    RICCIO: ‘PRINCIPIO IMPORTANTE’
    «Personalmente sono molto contento, questa vicenda era per me motivo di grande preoccupazione». Così commenta, ai microfoni dell’agenzia radiofonica GRT la notizia dell’archiviazione del procedimento a suo carico decisa dall’Ordine dei medici di Cremona l’anestesista che ha staccato la spina.
    «Al di là dell’aspetto personale», sottolinea Riccio, «deontologicamente parlando, questa decisione stabilisce un principio molto importante: interrompere una terapia ora è possibile anche quando questa, come si è trattato nel caso di Welby, è una terapia salvavita. Ora spero che sia l’occasione», conclude il medico, «per permettere un ulteriore dibattito su queste tematiche nel nostro paese».

    L’ORDINE: ‘GRAZIE, MARTINI’
    «Un importante aiuto per la nostra decisione è arrivato inaspettatamente dal cardinal Martini che con lucidità ha saputo distinguere tra eutanasia e interruzione del trattamento. Fuori luogo quelle di un noto senatore della Repubblica che ha parlato addirittura di omicidio».

    Queste le parole del dottor Andrea Bianchi, presidente dell’ordine dei Medici di Cremona, a margine della conferenza stampa sul caso Welby-Riccio riferendosi agli interventi dell’alto prelato della Chiesa Cattolica e del senatore Cossiga che ha denunciato Riccio per omicidio di consenziente.

    «Parlo da laico convinto – ha proseguito il medico – ma in me e in tutti i membri della commissione disciplinare le parole del cardinale sono state di grande supporto, indicando anche la necessità di arrivare al più presto ad un equilibrio e a una legge sul testamento biologico».

    ***

    Senza entrare nel merito della valutazione morale, che richiederebbe una meditazione più approfondita, resta un fatto inequivocabile:

    LA DUREZZA DELLA CHIESA DI RATZINGER & RUINI. Si vergognino! 😡

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